Commedia

IL MIO AMICO ERIC

TRAMA

Eric Bishop è un postino alla deriva. Ha problemi psicologici, non trova il coraggio di incontrare l’ex moglie (che ha lasciato trent’anni prima), i figliastri non lo rispettano, beve molto. Ha perfino smesso di andare allo stadio per tifare il Manchester United. Un giorno gli appare Cantona.

RECENSIONI

Ken Loach, soprattutto nelle prove su sfondo contemporaneo, da sempre applica uno schema: tratteggio sociale di un ambiente, caratteristiche del protagonista e cenni dei comprimari, sviluppo e drammatizzazione della vicenda, incombere della tragedia, scena madre, scioglimento positivo o negativo. Dalla profondità e sfaccettature di questo schema - a grandi linee - dipende la riuscita dei film e il valore complessivo del suo cinema. Non realismo, ma una continua parabola sulla visione personale del reale. Il mio amico Eric, molto apprezzato al Festival di Cannes 2009, conferma la regola con un'eccezione: l'introduzione dell'elemento surreale, cioè il protagonista che 'incontra' l'ex attaccante del Manchester, Eric Cantona, e il conseguente ripensarsi del regista in sua funzione.
Lo script di Laverty non suona nuovo ¹: il contatto tra postino e calciatore rilegge nient'altro che la contrapposizione proletario/nobile, che difatti parla francese, ovvero povero e ricco, pochezza e prestanza fisica, l'uno pieno di problemi e l'altro custode delle soluzioni. Attenzione: non c'è propriamente rapporto di amicizia, come suggerisce il castrante titolo italiano, in quanto la figura di Cantona non ha concretezza narrativa, neanche sottoforma di fantasma o spirito-guida; resta sempre 'apparizione' di una mente labile (l'incidente iniziale serve per fissare la confusione psichica) e segna il nodo più complesso del film: Eric è davvero pazzo, vede ciò che altri non vedono, trova le risposte ascoltando un'allucinazione quindi restando, in ultima istanza, disturbato. In questo senso l'originale Looking for Eric introduce ben altra sottigliezza: gli Eric sono due e l'oggetto della ricerca (looking for) è semplicemente sé stesso, Eric il postino ², che si riferisce a Cantona come punto di ascolto di un dialogo tutto interiore. Non a caso le imbeccate del campione agiscono nella testa di Eric e distinguono, quasi freudianamente, il contenuto manifesto dal significato più latente: per esempio egli rifiuta di incontrare l'ex moglie, ma in realtà vuole vederla. E' una psicanalisi con Cantona all'insegna dell'alterazione (tanti indizi, tra cui la birra e le canne).
Il problema è come gestire la materia complessa, alleggerendola in fase di impaginazione per la commedia drammatica che si vuole ottenere. Loach sceglie una strada semplice, troppo: intavolando lunghi campo-controcampo fra gli Eric, non riesce a ravvivare l'aneddotica del calciatore, già in sé a rischio boutade, che si ripete automatica per tutto il film alternando ermetici proverbi alla loro spiegazione. Non va meglio nella sostanza delle questioni: il passato con la moglie, squadernato in idillici flashback anni Settanta (la soluzione visiva peggiore, che trascura figure e contesto), si limita a declinare una formula - la rottura sentimentale per timore delle responsabilità - esattamente come l'iniziazione criminale del figlio maggiore (già fatta, molto meglio, in Sweet Sixteen). Qui il regista ribadisce la qualità nell'estrapolare il singolo fermo immagine - da ricordare i progressivi, dolorosi incontri Eric/Lili - , ma insieme la difficoltà di ricoprirlo di valore assoluto (che però non è obbligatorio): così anche la riflessione sull'icona Cantona, e in generale sul possibile effetto vivificante che vantano le icone, si chiude, prevedibilmente, con la stratificazione del giocatore che si toglie la sua stessa maschera. Uno sguardo ai marchi loachiani: riproposti gli episodi di everyday life, come il rito della partita nel pub (in The Navigators gli operai tifavano Sheffield), che nella loro semplicità continuano a funzionare; tentata poetizzazione di quadri comuni, emanazione diretta dell'intreccio principale, vedi i bambini che giocano a pallone; consueta sequenza shock, stavolta un'irruzione poliziesca ottimamente scandita (la violenza esplode improvvisa e rompe la cena famigliare) quanto ampiamente prevista.
Tra gli attori - sempre fondamentali nel discorso dell'autore - se la cava Stephanie Bishop nella parte aspra di Lili che rivela una certa dolcezza, Gerard Kearns offre l'ennesima faccia di strada, ma la bella sorpresa è la coppia terapeutica formata da Steve Evets (magnifico) con Eric Cantona, che supera i difetti di scrittura con incisivo scambio bilingue alto/basso scandito dai fuckin' hell del protagonista. Il doppiaggio non ha senso.