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IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE

Titolo OriginaleNánfāng chēzhàn de jùhuì
NazioneCina, Francia
Anno Produzione2019
Durata113'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Zhou Zenong è il leader di una banda di criminali specializzati nel furto di motociclette, ed è da poco uscito dal carcere. Durante una lite con una banda rivale spara ed uccide accidentalmente un poliziotto, scambiandolo per un suo nemico. Braccato dalla legge e dai rivali, l’uomo si ritrova in fuga.

RECENSIONI

Nel documentario di Yves Montmayeur Citizen K, presentato al Far East Film Festival 2022, il regista Diao Yinan mette a confronto il suo modo di fare e intendere il cinema con quello di Takeshi Kitano: «Per certi versi, io e Kitano siamo simili. Questo senso di impotenza, di paura... proviamo un sentimento forte quando ci scontriamo con la violenza. Il tentativo è quello di riprodurre quella violenza, con il massimo della precisione. Pur distinguendosi, ovviamente, da Kitano». Non fatichiamo certo a sostenere che una delle cifre formali di Il lago delle oche selvatiche, così come del precedente Fuochi d'artificio in pieno giorno (2014, che fece conoscere Diao Yinan al pubblico europeo e internazionale, grazie alla vittoria dell'Orso d'Oro berlinese), sia proprio l'aggressività, l'esplosione improvvisa della ferocia. Una asprezza geometrica, assieme stilizzata e ipersatura, catartica e foriera di pessimi sviluppi. Ma, soprattutto, politica e ribelle. Diao fa parte della cosiddetta “sesta generazione” di cineasti cinesi; la stessa di Wang Bing, di Zhao Liang – entrambi maestri del Nuovo Movimento Documentarista (NDM) – e di Jia Zhangke, dietro la macchina da presa per Al di là delle montagne (2016) e I figli del fiume giallo (2018), e autore di una delle immagini più potenti del cinema cinese contemporaneo: quella del funambolo di Still Life (2006), che cammina sul filo tra due edifici fatiscenti mentre sullo sfondo un razzo decolla. Un'istantanea che rappresenta una nazione e le sue irrecuperabili contraddizioni, che stabilisce le coordinate di una complessa rivoluzione artistica di cui anche Diao è naturalmente portavoce. Per veicolare il suo messaggio, in qualche modo aggirando i legacci della censura statale, Diao opta per i topoi del noir. Ci sono le donne ciniche e fatali, le ambientazioni urbane piovose, i protagonisti di poche parole sempre travolti da un destino avverso – il disilluso ispettore Zhang Zili in Fuochi d'artificio, il disorientato criminale Zhou Zenong nel Lago delle oche.

Spesso, ci si vorrebbe fermare per ammirare le singole qualità della messinscena, fotogramma per fotogramma: le stordenti luci al neon, i riflessi e le ombre (“Le ombre proiettate sulle pareti assumono un ruolo centrale nel film, tanto che le sagome dei personaggi sembrano quasi vivere una vita distinta rispetto alle figure in primo piano”, Emanuele Sacchi, MYmovies.it), l'uso dello spazio, il fumo, il sottofondo di erotismo. Diao sembra quasi chiedere allo spettatore di congelare l'inquadratura, fissando così, di conseguenza, il quotidiano dei suoi antieroi. In questa rivisitazione dell'hard boiled, che affonda a piene mani nel realismo sociale scherzando col confine che separa la fantasia dalla verosimiglianza, gangster e poliziotti sono sempre intercambiabili, facce diverse di una medesima medaglia: ognuno aderisce a gerarchie arcane e conduce un doppio gioco, rendendo a tratti volutamente contorta e sovraffollata la trama e le sue ramificazioni. Tra coreografici raduni della malavita, sparatorie durante balli di gruppo (con le scarpe che si illuminano al ritmo di Rasputin di Boney M) e interludi semi-surreali (la scena allo zoo, con una tigre che osserva impassibile un omicidio), tutto per Zhou va male e appare irrecuperabile. Ovunque si giri trova solo ostilità, eccezion fatta per la prostituta Liu Aiai e per quel lago che viene considerato una zona franca ed estranea alle leggi delle varie fazioni. Ma la massa informe che si muove contro di lui non fa prigionieri, non prevede assoluzioni e non conosce imparzialità. Fino al finale, denso di sarcasmo e disincanto, perfettamente in linea con le regole della giustizia di regime e assieme capace di metterne in luce il completo fallimento. È questo orizzonte umano limitato e squallido a dare un senso palpabile della vita ai margini della legalità e della moralità nella Cina moderna. Ed è questo il peso tematico di Il lago delle oche selvatiche, un film che sembra sgorgare quasi in modo organico dal paesaggio cinematografico cinese, riversandosi sullo schermo in tutta la sua torbidità.