Drammatico, Sala, Sentimentale

IL GUSTO DELLE COSE

Titolo OriginaleLa Passion de Dodin Bouffant
NazioneFrancia
Anno Produzione2023
Durata134'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Francia, 1885. Eugénie, cuoca eccezionale, lavora da 20 anni per il famoso gastronomo Dodin Bouffant. Col tempo, dal rapporto professionale e la reciproca ammirazione nasce un sentimento. Tuttavia, Eugénie è insicura se legarsi a Dodin, così quest’ultimo decide di fare qualcosa che non aveva mai fatto prima: cucinare per lei.

RECENSIONI

“M’importa na sega, na sega sai, ma fatta bene, che non si sa mai”
Consorzio Suonatori Indipendenti

Che cosa unisce l’arte culinaria e l’arte cinematografica? Fra tutti i punti di contatto possibili, probabilmente il principale è questo: la preponderanza della sintesi sull’analisi. In cucina come al cinema, l’insieme NON è coincidente con la somma delle parti. Se sullo schermo la dimensione simultanea non sovrasta in una maniera o nell’altra quella sequenziale, non è cinema. Non è cinema, cioè, quando ci troviamo semplicemente una sequenza di elementi (crono)logicamente disposti uno dopo l’altro, senza niente che spicchi. L’immagine è questo: coesistenza sincronica di elementi, che arricchisce la semplice sequenzialità della narrazione.
Per credere, provate a guardare la prima miracolosa mezz’ora di Il gusto delle cose. La preparazione di un pasto di alta classe in una cucina dell’Ottocento, messa in scena con un intarsio di movimenti di macchina degni di un Hou Hsiao-Hsien. Coordinare più elementi in un insieme NON vuol dire passare da uno all’altro in sequenza: ciò che va gestito è, in cucina come al cinema, che ogni “ingrediente” è una totalità in sé, e dunque nella sequenza si impiglia sempre qualcosa che eccede ciò che, di un dato elemento, serve per passare al successivo. La gestione di questi “impigli” ha un nome nobile: mise en scène.

Dopo questa sfavillante lezione di regia, accentuata da una fotografia luminosa fino alla gloria, Tran Ahn Hung si concede un racconto con ritmi distesi e toni soffici, imperniato sul facoltoso gastronomo Dodin Bouffant (personaggio fittizio, preso da un romanzo di Marcel Rouffe, ispirato dallo storicamente esistito Jean Anthelme Brillat-Savarin), sulla fascinazione per la sua arte inestricabile dalle malie sensuali di un certo “bel mondo” borghese d’antan (siamo nel 1885), e sull’amore tra lui e la dotatissima cuoca non più giovane. Un amore asintotico; un eterno, cortese avvicinamento all’oggetto del desiderio che sfugge con la morte al momento di farsi acciuffare.
Così, questo film che si installa da subito comodo comodo nella nicchia merceologica delle lussuose, carezzevoli, inamidate, innocue coproduzioni europee destinate alle sale pomeridiane del pubblico urbano midcult di età anzianotta anziché no, in cerca del brivido (di questi tempi francamente raro) della raffinatezza leccata e un po’ passé, ecco questo film, teso a smussare ogni spigolo vivo del dramma fino a renderlo morbido come un cuscino, con questo subplot amoroso, sviluppato con delicatezza francamente d’altri tempi, si concede un’inattesa, facilmente riconoscibile esplorazione teorica. Incanalandosi verso la cuoca e la sua giovanissima apprendista, il racconto sembra suggerirci con eloquente discrezione che il momento sacro (in cucina e al cinema) della Sintesi, incarnato qui nelle due donne prodigio, non è mai raggiungibile a valle perché già presente a monte. Non lo possediamo mai, perché è lui che possiede noi. L’immaginazione non è una facoltà nelle nostre mani e in nostro controllo; piuttosto, quando essa si attiva, sintetizzando più elementi discreti in una simultanea immagine unitaria, è lei che ha il controllo di noi. Armeggiare con arti come la cucina o il cinema significa dunque destreggiarsi in un continuo corpo a corpo con il fantasma (cioè con l’immagine sintetica): anche l’arte del vivere borghese, così sontuosamente incarnata da Dodin, deve inchinarsi davanti a questa necessità, per la quale non è certo il soggetto ad avere il controllo, ma semmai il fantasma (cioè l’immagine sintetica, che “orienta” suo malgrado il soggetto, le proprie cognizioni, i propri desideri). Lo sapeva bene il grande, grandissimo Jacques Rivette, che probabilmente amerebbe questo film; lui che tanto ha teorizzato sulla differenza tra sintesi e analisi, e ha dedicato una significativa parte della sua filmografia ai corpo-a-corpo coi fantasmi (che non mancano neppure in Il gusto delle cose).
Considerato che lo slot dedicato annualmente dal concorso di Cannes a quella mostruosità che è la Coproduzione Europea Ad Alto Budget era, nell’anno appena precedente a quello di Il gusto delle cose, occupato dal mostriciattolo neanche così disprezzabile (ma pur sempre mostriciattolo completamente privo di qualsiasi sensibilità cinematografica) Le otto montagne, ecco, questa volta non ci si può lamentare. Anche l’Europudding può essere un dolce di alta classe, se fatto con la giusta cura.