TRAMA
A Taipei non c’è acqua, in compenso il succo d’anguria costa pochissimo. Hsiao-Kang non vende più orologi, è diventato un attore porno e reincontra Shiang-chyi.
RECENSIONI
Stavolta a Taipei le tubature sono vuote, le case si riempiono di bottiglie di plastica, insetti invadono i corpi, la siccità è ovunque:la televisione consiglia l’uso alternativo del succo d’anguria ma Hsiao-kang e Shiang-chyi non si arrendono e continuano a cercare acqua. Parabola sul falso sesso celebrato dalla pornografia (quell’anguria spaccata, come una vagina oscena tra le gambe, all’inizio del film; quelle dita che la penetrano; il godimento di rimando, finto tanto da parere vero, lo sanciscono senza perplessità), IL GUSTO DELL’ANGURIA è film che, se all’inizio sembra porsi quasi come variazione giocosa sulle consuete ossessioni del cinema del taiwanese (la solitudine, la comunicazione impossibile, il sesso come extrema ratio, misura ultima cui ricorrere per instaurare un contatto di anima e corpi, ineluttabilmente effimero), riprendendo i medesimi protagonisti di CHE ORA E’ LAGGIU’? (l’intera filmografia del regista racconta sempre dello stesso personaggio; la valigia che in quel film galleggiava sull’acqua rimane chiusa, tutti i tentativi di scoprirne il contenuto sono vani; “ricorderò sempre il giorno in cui ci siamo incontrati” si canterà: l’amore tra i due giovani non è dunque tramontato), intervallato com’è da siparietti musicali cui l’autore sembra delegare la decodifica degli stati d’animo delle figure in gioco (cfr. THE HOLE), studiatamente semplici, a tratti quasi sciatti, con alcuni sprazzi di genialità (il protagonista-pene che balla nei cessi pubblici, un contorno di ballerine che fanno coreografia persino con la carta igienica) e più di un risvolto divertito, ci rendiamo invece conto procedendo, che, anche stavolta, per quanto i toni paiano alleggeriti, il tema portante del film ha il consueto, complesso spessore. I dieci minuti finali, di agghiacciante chiarezza, costituiscono una sequenza tra le più devastanti viste negli ultimi anni al cinema: è il momento più forte dell’opera, per quanto grottescamente ottimista (durante il lungo amplesso con la ragazza svenuta, vertice imprevedibilmente aberrante della lavorazione di un film porno, il protagonista, scrutato dalla donna che ama, le offre il fallo dalla finestrella dalla quale veniva spiato: il sesso meccanico e mercificato viene abbandonato in favore della passione vera, un pompino disperatamente voluto seppellirà tutto lo squallore), perfetta chiusa del teorema di partenza (meglio l’acqua, anche sporca, che il succo d’anguria; meglio il rapporto carnale con chi ami che la vuota meccanica dell’amplesso offerto nudo all’obiettivo della macchina da presa; meglio un orgasmo autentico che uno simulato).
Pur senza raggiungere l’austera perfezione di GOODBYE DRAGON INN, penultima fatica del regista (purtroppo mai distribuita in Italia), IL GUSTO DELL’ANGURIA (ma il titolo originale suona come LA NUVOLA CAPRICCIOSA, verso parodiato di una canzone che allude alla solitudine, alla casualità e caducità degli incontri umani) è comunque lavoro che conferma Tsai regista di rara coerenza stilistica (la superba capacità di incorniciare gli spazi e i movimenti dei personaggi al loro interno, la maestria nel gestire la materia, facendo un uso solo incidentale dei dialoghi e mescolando sapientemente i generi – commedia, dramma, musical -), che osa senza pudori e senza provocazioni gratuite (le lacrime di una donna con un pene in bocca costituiscono un grande momento di verità, di un’intensità tale da cancellare tutto il romanticismo posticcio e patinato del cinema hollywoodiano - altro che balle -), affermando le sue verità con l’abilità di chi sa far trasparire, dietro un ghigno sardonico, il gusto amaro della vita.
L’opera di Tsai Ming-Liang segue un percorso di stupefacente coerenza: con Goodbye Dragon Inn il regista taiwanese ha messo in scena non solo la fine di un(/del) cinema, ma la fine del mondo tout court. Dopo questa pellicola non resta che una realtà disertata anche dai fantasmi del desiderio, non sopravvive che la concretezza sorda e inerte degli oggetti, non rimane che la viscosità stagnante e schiumosa di un succo dolcemente ammorbante (“Non ho mai bevuto niente di più buono” è l’euforica dichiarazione televisiva di un intervistato).
Ebbene, forse qualcuno penserà che Tian bian yi duo yun (l’irripetibilità del titolo italiano non ammette deroghe), capriccio rosseggiante screziato da quadri di nerissima ironia, non aggiunga né tolga nulla alla sua opera, non costituendo altro che un divertissement piuttosto fatuo e tutto sommato “gratuitamente provocatorio”. Niente di più sbagliato: in The Wayward Cloud Tsai Ming-Liang è più estremo e radicale che mai, prendendo le distanze dal suo cinema di ectoplasmi desideranti per dare corpo a un universo filmico letteralmente reificato. Tutto è oggettivizzato, tutto è subito - e senza via di scampo - oggetto.
La prima inquadratura è paradigmatica: la mdp riprende in totale la biforcazione di un camminamento sotterraneo; il campo è vuoto, abitato soltanto dalla freddezza sintetica dei pannelli murali e delle luci al neon. Passano alcuni secondi e, precedute dal rumore di passi, entrano in quadro due figure femminili radenti la parete; procedono in direzione opposta e percorrono lo spazio con regolarità meccanica, incrociando le loro traiettorie senza neppure guardarsi. Con una fissità allucinatoria, l’inquadratura amplifica la sostanza tragica della scena: tra uomini e cose non c’è più differenza, il paesaggio urbano è riflesso e proiezione di un’umanità pietrificata, gli individui sono ridotti a concrezioni minerali (si pensi, qualche sequenza più tardi, alla chiave metallica imprigionata nell’asfalto, chiara metonimia di Shiang-chyi).
The Wayward Cloud mette insomma in scena l’universo post Goodbye Dragon Inn, un universo di puri significanti senza significato, un universo in cui anche l’attività simbolica per eccellenza - il linguaggio verbale – è costretta ad abdicare all’ottusa materialità delle cose (“L’anguria può dire quello che le parole non significano”). Perfino la sessualità è possibile soltanto attraverso la mediazione di corpi estranei: la voluttuosa carnosità dell’anguria si sostituisce ostruttivamente alla vagina, le meccaniche prestazioni di Hsiao-Kang vengono praticate esclusivamente con attrici porno, vere e proprie bambole senza vita (“Allargale le gambe. Ecco, così è perfetta”). E l’eiaculazione finale, apparentemente liberatoria, avviene addirittura tra un uomo e una parete, tra una donna e un soffocante corpo estraneo. Alla lettera.
Che cosa difetta dunque a Tian bian yi duo yun per raggiungere la lancinante impassibilità di Goodbye Dragon Inn o l’indicibile disperazione di Vive l’amour? Molto semplicemente, il controllo stilistico: troppo spesso il rigore visivo si allenta per lasciare spazio a soluzioni fastidiosamente ammiccanti (le angurie galleggianti nelle acque torbide del fiume; le ombre sgranocchianti stampate sul muro), troppo spesso si scorgono concessioni al registro dell’intrigante (la sequenza dei frutti di mare che fa tanto “lezione di cinema allusivo”), troppo spesso si avvertono cedimenti alla logica dell’accattivante e del forzatamente divertente (la sequenza dei granchi sparpagliati sul pavimento della cucina non fa sorridere, obbliga a sorridere). Concessioni, queste, che non investono affatto i numeri musicali, di prodigiosa, fiammeggiante semplicità. Attenzione, l’ottimismo è soltanto apparente: gli ultimi venti minuti del film sono lì a mostrarcelo. Sfacciatamente.
Le cifre stilistiche e tematiche del cinema di Tsai sono note, nell’estremismo come nella coerenza. Una concezione radicalmente pessimista della natura dell’uomo, e in particolare delle velleità romantiche che dovrebbero costituirne la speranza di salvezza nel generale naufragio del suo destino, conosce emanazioni linguistiche non nuove ma condotte esse pure fino alla saturazione e al (possibile) rigetto.
Fra gli strumenti di lavoro spesso adoperati dal regista v’è il grandangolo, dalla versione soft della focale corta fino all’eccesso del fisheye: la profondità di campo riduce l’essere umano all’interno di un ambiente, per lo più urbano, che incombe e minaccia: strade, corridoi, edifici, viali schiacciano o ingoiano le figurine che vi si muovono o vi stazionano per tirare il fiato o abbandonarsi al pianto. C’è sempre una crisi di pianto, nei film di Tsai, ma sempre inquadrata in modo che ne attenui o contraddica il pathos più immediato: vuoi la ripresa in campo lungo, vuoi il contesto narrativo che vira all’umorismo nero, vuoi la durata interminabile della scena che smorza l’empatia dello spettatore e lascia sullo schermo soltanto la nuda desolazione del personaggio; alcuni di tali espedienti vengono a volte cumulati, come nel piano conclusivo de Il gusto dell’anguria.
Altra costante è la presenza di oggetti (ad esempio gli orologi) che dovrebbero fungere da mediatori nella relazione interpersonale, ma finiscono per intralciarla. In questo film, fin dall’inizio – in una scena francamente indimenticabile – l’anguria è un ostacolo al contatto umano: il protagonista l’ha scelta come sostituto dell’organo sessuale della partner; più tardi, lei userà un’anguria come sostituto del feto, simulando un parto sulle scale di casa. Gli oggetti sono i nostri feticci, la prova tangibile dell’impotenza a toccare l’altro e a conseguire qualunque risultato costruttivo: perciò, l’unica attività sessuale è solitaria o è quella artificiale, spersonalizzata della pornografia, con il suo corredo grottesco di telecamere piazzate sotto i genitali, le indicazioni urlate dal regista, le ciglia finte improvvisamente perdute dall’attrice. Ma gli oggetti, la natura, i luoghi edificati a nostra difesa si ribellano alla nostra volontà di controllo, tradiscono il nostro affidamento: le acque fluviali sono avvelenate, la casa si allaga senza rimedio, la siccità o una pioggia torrenziale si abbattono sulla città, le formiche ci assalgono, il rifugio per incontri sessuali anonimi diventa la culla di un incesto involontario.
Se un’evoluzione si può osservare nello stile del regista, questa è non tanto nell’estremo delle situazioni visualizzate, quanto nel peso sempre maggiore che va acquistando l’assurdo: dai lavandini escono bolle di sapone, le angurie vengono regalate in pegno d’amore o d’amicizia – come un tempo le rose – o galleggiano sul fiume come fiori abominevoli, intermezzi musicali vedono come protagonisti ragazze dall’acconciatura esagerata o un ragazzo-pesce che emerge dalle acque, si balla e si canta nei bagni pubblici. Ma è un assurdo che discende da un eccesso di realtà: l’iperrealismo (diegetico, non visivo) accentra un dettaglio che altrimenti si perderebbe nel continuum della quotidianità, lo porta in primissimo piano tagliando fuori tutto il resto, ne deforma i tratti, ed ecco sfornato il surreale. Tsai attinge l’assurdo attraverso un forsennato attaccamento alla realtà, scruta il nero mortifero che accerchia l’oggetto uomo con il beffardo vigore espressivo di quella che Pasolini aveva chiamato disperata vitalità.