TRAMA
Roma, 1968. Nicola, giovane pugliese trasferitosi nella capitale per fare il poliziotto ma col sogno di diventare attore, viene scelto per essere infiltrato all’interno dell’università in subbuglio. Lì conosce e s’innamora di Laura, una studentessa della borghesia cattolica che sogna un mondo senza ingiustizie, a sua volta invaghita di Libero, leader del movimento studentesco di provenienza operaia. Diverse vicende porteranno il giovane agente a fare delle scelte che cambieranno per sempre la sua esistenza.
RECENSIONI
È nel buio senza spiragli di una notte romana, tra amplessi borghesi rifiutati sotto le luci di una discoteca e coiti proletari prezzolati nel chiuso di una camera ad ore, che fiorisce il Sessantotto italiano. Caterina Caselli canta Sono bugiarda, le divise (quella della responsabile studentessa di buona famiglia, quella del poliziotto dedito alla propria missione) faticano a vestire le menzogne istituzionali. Una travolgente e indimenticabile saison en enfer le incenerirà. Ed è unaltra notte, capitolina anch'essa e ancor più cupa, la notte terminale della famiglia benestante borghese (e cattolica) che sigla la degenerazione del sogno, la sua caduta o la sua mutazione. 'Ucciso' finalmente il padre, se ne (rim)piange già la mancanza e con lui lo smarrimento della retta via. Poco tempo prima la ricerca affannosa del cane di famiglia perduto nel bosco per negligenza (forse l'unica sequenza a segnare uno scarto rispetto alla medietà dal respiro corto dell'ultima fatica placidiana) aveva anticipato lo smembramento dell'unità familiare, la perdita definitiva di ogni equilibrio.
Il grande sogno disattende significativamente le intenzioni del suo regista sintetizzate nel titolo. Quello che doveva essere un romanzo di formazione 'popolare e politico', affresco di un inebriante e arrabbiato periodo storico e personale, rievocazione di slanci utopistici dimenticati, strumentalizzati, mal interpretati da condividere col e nel presente ('Spero che ai ragazzi di oggi arrivi qualcosa della mia energia' ha affermato il regista in conferenza stampa a Venezia), è un film in definitiva cupo, rinunciatario, ombroso, perfino pavido. Placido vuole andare da troppe parti, forse per accontentare tutti, e non va da nessuna. Il suo Sessantotto, articolato su due registri, quello del ritratto d'epoca e quello autobiografico, che non riescono quasi mai a vivificarsi l'un l'altro, è fragile e stanco. L'intenzione di raccontare il fervido idealismo dei giovani contestatari deve scontrarsi con la 'dovuta' e frettolosa evocazione delle sue propaggini terroristiche (in Italia è impensabile un film sul sogno senza disillusione, il sogno fa paura?); la dichiarata visione privata degli eventi (il '68 dovrebbe essere filtrato dallo sguardo del celerino Nicola, alter ego di Placido, impersonato da un efficace Scamarcio) è smentita in realtà dalla centralità del personaggio della giovane cattocomunista Laura (una Jasmine Trinca spesso legnosa), le cui passioni, politiche e non, e soprattutto le preoccupazioni familiari mettono in ombra l'altro sogno che scorre parallelo, quello di un proletario che vuole accedere alla recitazione attraverso il canale borghese dell'Accademia d'Arte Drammatica; in più, la ribollente temperie politico-culturale si riflette in figure bidimensionali (il leader del movimento studentesco Libero, un Argentero che fa quel che può con un personaggio debole e probabilmente sbagliato), fiacche orazioni rivoluzionarie e maturazioni di coscienza opache e fuori campo.
Placido espone il Sessantotto nella vetrinetta del salotto buono con tutti gli slogan, i miti e gli oggetti feticcio al loro posto e così facendo lo distanzia nel tempo (come accadrà anche con la sbrigativa epigrafe finale che illustra la sorte dei protagonisti). Quasi non abbia fiducia nelle proprie capacità di restituire il senso e l'odore di un'epoca, eccolo nei soli primi venti minuti inquadrare la copertina di Lettera ad una professoressa di Don Milani, mettere in scena un plateale scontro tra genitori e figli, ricordare la morte di Che Guevara durante un comizio, celebrare sullo schermo del Nuovo Olimpia I pugni in tasca bellocchiani, far accompagnare dalla sognante Suzanne di Leonard Cohen una manifestazione pacifista (e più tardi, tra gli altri, sarà la volta dei Quaderni piacentini, dell''I have a dream' di Martin Luther King che fa capolino tra le sommosse, degli struggenti ombrelli di Jacques Demy, delle pagine di 'Paese Sera' sfogliate ingenuamente da Nicola solo per controllare gli orari dei film). Il movimento sessantottino risulta al tempo stesso riconoscibile e fumoso.
Forse più interessato al versante intimista-sentimentale, Placido ricorre però alla solita abusata lente della relazione triangolare (triangolo scaleno, considerato il diverso valore dei lati). Sopra il letto nel quale Laura si libera dell'educazione sessuofobica cattolica concedendosi, invero con una certa malinconia, prima a Libero e poi a Nicola, campeggia la scritta 'Nous sommes le pouvoir' (il pudico nudo con cui la Trinca sfida i residui di benpensantismo dei compagni di lotta è un altro raro valido e fuggevole momento). Ed è iscrivendosi al corso autogestito di liberazione sessuale che nasce ufficialmente l'impegno politico di Andrea, il fratello minore di Laura, che per primo del nuovo movimento esplorerà l'ala più radicale. Il sesso può essere una bomba deflagrante: lo sperma dei figli è l'ingrediente segreto che trasforma in molotov il rassicurante cocktail del paternalismo borghese. Tutto ritorna comunque nell'alveo familiare, nella lamentazione per la scompaginazione del focolare domestico.
Il grande sogno sconta una scrittura faticosa e imbrigliata, probabilmente incompiuta (si mormora di circa tre quarti dora di tagli), la cui già incerta struttura drammaturgica si sfalda quasi del tutto nella seconda parte, tra brusche accelerazioni, altrettanto brusche frenate (la già citata lunga notte al capezzale del padre morente) e l'ingresso di personaggi indecifrabili (l'insegnante di recitazione di Laura Morante, che sembra tolta di peso da un film di oggi, fumatrice di canne, riconoscitrice del talento proletario, ma anche attrice e donna frustrata e fiera oppositrice dei tentativi di modernizzazione, a suo dire scriteriata, dell'istituzione teatrale: 'Il testo è lì da cento anni e non sarete voi a migliorarlo'). La macchina da presa di Placido, pur memore del lavoro precedente, quel Romanzo Criminale imperfetto ma sanguigno, non trova mai un punto di equilibrio tra il linguaggio intimista da fiction di livello medio-alto (quello coniugato, con accorata sapienza e genuino senso del romanzo popolare, dal Marco Tullio Giordana de La meglio gioventù, inevitabile riferimento) e i soprassalti stilistici delle scene più concitate, fitte di otturatori veloci, abuso di ralenti, timidi inserti d'epoca, superflui scarti cromatici (e mediocre gestione degli spazi di ripresa). Si rincorre la facile didascalia del montaggio parallelo (la perdita della verginità di Laura/l'irruzione nell'università), si ignora il bisturi del piano sequenza.
Mette tristezza questo Grande sogno placidiano (ancor di più se si crede nella buona fede del regista e nella sua rappresentatività di un supposto buon cinema medio). Mette tristezza perché riafferma l'incapacità tutta italiana di riflettere poeticamente e liberamente sulla propria storia nonché di restituire, del sogno, l'atemporale urgenza e la squassante violenza (giusto un nome, una preziosa eccezione: Marco Bellocchio). Mentre scorrono i titoli di coda, Giorgia canta su un testo da catechismo: 'Ora lo so/lo racconta una chitarra/è una ballata che parla anche di me/Ora lo so/c'era un coro di sirene/c'era un'idea/di bastarde libertà/di notti sbiadite/di amori vissuti/a cielo aperto/e questo è quello che so'. Beata lei che ha sentito, beata lei che sa. Chi scrive, tutt'al più, crede di aver visto primeggiare su tutto l'ahimè immarcescibile di Cechov ma non ci giurerebbe.

Dopo avere raccontato la storia della banda della Magliana e di un quarto di secolo italiano con Romanzo criminale Michele Placido torna a scegliere temi importanti. È questa la volta del ’68, che si fonde perfettamente con la sua biografia, visto che è proprio in quegli anni che il futuro sanguigno regista, fuggendo dalla piccola realtà di un paese pugliese, raggiunge Roma, entra nella polizia e scopre definitivamente la sua vocazione di attore. Ed è proprio il racconto di formazione a risultare maggiormente incisivo nella visione di Placido, forse perché più sentito rispetto a una connotazione d’ambiente non priva di efficacia ma piuttosto stereotipata. L’anno dei tumulti studenteschi in cui è cambiata la consapevolezza di molti, almeno per un po’, nei confronti del potere istituito, dell’autorità, è reso attraverso i comitati, i tafferugli, gli scontri con la polizia, i discorsi politici, i dibattiti, il rifiuto della cultura ufficiale da parte degli studenti dell’Università “La Sapienza” di Roma. Al centro del racconto la presa di coscienza della giovane e coscienziosa Laura, che si oppone con forza e determinazione ai principi conservatori della famiglia borghese da cui proviene e al conformismo dei ruoli, diventando un punto di riferimento per uno dei leader del movimento studentesco, il fascinoso Libero. Ma non c’è mordente senza contrasti e così ecco arrivare Nicola, il poliziotto, alter-ego di Placido, che si infiltra nell’Università occupata e ovviamente si innamora di Laura. Nonostante una certa prevedibilità, passaggi che rischiano il didascalico, le immancabili immagini di repertorio e qualche macchietta (il padre di Laura su tutte), il film è capace di emozionare e non cade nella retorica e nell’ideologia. Il punto di vista è quello degli studenti, ma la varietà dei personaggi offre sfaccettature che contribuiscono a creare un quadro d’insieme piuttosto ampio. Le ragioni di tutti vengono motivate con un’alternanza capace di rendere l’opera problematica e non priva di spessore. Poi, con tanta carne al fuoco la sensazione è di superficialità, ma lo sforzo di Placido di asciugare il film da fronzoli e orpelli soffermandosi solo su ciò che lo interessa (raccontare una parte di sé connotandola temporalmente in modo da renderla universale) impedisce al film di sedersi completamente sui cliché. In parte e credibili gli interpreti, con una nota di merito alla naturalezza di Jasmine Trinca (un po’ offensivo il premio Mastroianni come attrice “emergente” attribuitole al Festival di Venezia, visto che è sugli schermi da quasi due lustri), e a Riccardo Scamarcio, sottovalutato a causa del successo nel pessimo filone giovanilistico e invece dalla forte presenza scenica.

Placido, che un paio di film da regista li ha anche azzeccati, fin quando fa del 68 una coreografia, un balletto col quale si mette in scena il movimento (appunto) e dunque la concitazione, il furore, la teoria, il dibattito come commento sonoro, dimostra anche un certo piglio: la resa di un’atmosfera, dell’idealismo di una generazione emergono per alcuni istanti dall’affresco agitato che il regista, nei primi minuti, dimostra di saper orchestrare. Ma poi c’è un film da inventarsi, dei personaggi da far agire su un quadro di superficie che retrocede inevitabilmente a sfondo e, ancora una volta, si fanno i conti con un cinema che quando affronta il nodo dell’intimo e del dettaglio mostra tutti i suoi limiti: l’ambiente familiare è debole e tutto di maniera, il dramma non parte mai, ingolfato nel registro comico/disincantato che questo cinema italiano eleva a costante esorcismo della sua insipienza alla costruzione di una tensione vera, di un intreccio che abbia senso oltre il singolo siparietto che urla il sintomatico aspetto della questione di turno. Si fa di Scamarcio/Placido, che porta avanti il grande sogno (della recitazione) nel grande sogno di una generazione, lo strumento umano che serve a incrociare gli ambienti, senza che (non dico una situazione, ma) un singolo carattere arrivi a vibrare di una parvenza di vita, scialbe vestigia di un’idea approssimata di opera che ci si ostina a voler mettere in scena, furbo complice un pugno di facce giovani, note e piacevoli che fungono da esca, i loro occhioni sui manifesti.
