

_x000D_Regista prolifico, basso costante del cinema d’autore nostrano da quarant’anni a questa parte, rappresentante sintomatico e coscienza critica di vizi e virtù di una italianità provincial-cattolica di cui ad oggi rimangono (diffusissimi) solo i peggiori vizi, Pupi Avati è divenuto ultimamente sinonimo di commedie d’attori agrodolci e dai frequenti risvolti drammatici, garanzia di film di umanista tenerezza verso i propri personaggi, responsabile di opere che sfociano a volte in quella propensione all’autoassoluzione tipica di certa nostra faziosa e deteriore commedia.
_x000D_Tra i motivi particolarmente cari ai cinefili che lo sottraggono a questa limitante definizione, oltre a certi giovanili deliri autoriali, alcune argute e cattive istantanee sulla società contemporanea e qualche deriva smaccatamente grottesca, un corpus di pellicole dichiaratamente di genere horror: il capolavoro La casa dalle finestre che ridono, il cult Zeder, il demistificante e grottesco Tutti defunti… tranne i morti, e i sottostimati e incompresi L’arcano incantatore e Il nascondiglio.
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_x000D_E’ questo nucleo di film che i giovanissimi Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini cercano di sviscerare all’interno di Il gotico padano – Dialogo con Pupi Avati , edito recentemente dalla sempre coraggiosa Le Mani. Il libro, nel generoso arco di 248 pagine, partendo da questa manciata di film, diviene uno strumento utilissimo per orientarsi nell’intero universo dell’ Avati autore e al contempo afferma un modo di intendere il genere gotico che è al crocevia tra tradizione e personale innovazione. Il saggio, dalla struttura interessantissima, è suddiviso in due sezioni, anticipate da un’introduzione di Roberto della Torre e corredato da dichiarazioni che Avati stesso ha rilasciato agli autori in una lunga intervista, esternazioni che si fanno di volta in volta spunto per nuove riflessioni o conferma delle intuizioni dei due critici, dialogando strettamente e necessariamente con l’analisi, e punteggiandola.
_x000D_Nella prima parte, Adamovit compie un viaggio di stampo marcatamente antropologico all’interno della cultura contadina – caratterizzata da miseria, coralità, oralità, stretto rapporto uomo/natura, retaggi medievali, culto dei morti – dalla quale Avati proviene, affrontandone modelli e archetipi e descrivendone in profondità le caratteristiche allo scopo di trovare le radici delle paure, degli umori, dei simboli e delle credenze che hanno nutrito, tramite esperienze dirette o raccontate, l’infanzia e l’immaginario del regista bolognese. L’indagine di Adamovit, che elegge Le strelle nel fosso a titolo maggiormente esemplificativo, mette in luce, con stile limpido e divulgativo e chiara padronanza dei riferimenti, l’humus da cui germina il cinema di Avati, donando al lettore/spettatore i mezzi per affrontare con maggiore competenza la totalità dell’opera del regista, non solo il suo cinema di paura.
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_x000D_Nella seconda parte Bartolini affronta i film, analizzando in maniera diretta l’attitudine gotica di Avati a partire dai primi semi scovati negli sbalestrati esordi, Balsamus e l’introvabile Thomas. Il lavoro di Bartolini è attento e puntuale: con perizia nocturniana contestualizza i film all’interno della storia del genere, stilando influenze e ricorrenze; con rigore esamina le modalità stilistiche con cui l’autore produce paura. Infine inserisce le pellicole nel percorso compiuto dal cinema di Avati, restituendo il ritratto di un regista che ha (avuto) il coraggio di sperimentare e sbagliare, di un autore a cui era (ed è) garantito il privilegio di dare sfogo, con intensità e presunzione via via calanti, alle proprie ambizioni, salvo poi dare i risultati più convincenti nell’artigianato di genere. Bartolini coglie topoi comuni e specificità dei singoli episodi della poetica dell’orrore avatiana, dando concretezza al percorso intrapreso da Adamovit.
_x000D_Il risultato è un’opera che aiuta a comprendere le peculiarità dell’approccio di Avati al genere: nonostante solo le ambientazioni di La casa delle finestre che ridono e Zeder siano ascrivibili al territorio padano, il saggio di Adamovit e Bartolini dimostra come la questione non sia banalmente geografica, ma intimamente poetica, relativa non alla locazione dei set, ma al background culturale e sociale, a uno specifico territorio dell’immaginario, con i suoi limiti, le sue ossessioni e i suoi paradossi, a cui anche l’appennino umbro di L’arcano incantatore e le location statunitensi de Il nascondiglio danno forma. Completano l’ottima trattazione, oltre a una breve filmografia relativa ai titoli trattati e un’accurata bibliografia, inserti fotografici dedicati al paragone tra i luoghi delle riprese all’epoca dei rispettivi film e la loro situazione attuale. Un libro utile ad approfondire una delle pagine più particolari del cinema orrorifico italiano, rendendo giustizia al lato più entusiasmante di un regista altrimenti controverso.