TRAMA
L’imperatore Marco Aurelio, sentendosi vicino alla morte, decide di passare il potere nelle mani del generale Maximo. Geloso per la scelta del padre, Commodus, strangola il genitore, fa strage della famiglia di Maximo e l’imprigiona. Venduto come schiavo ed addestrato come gladiatore, Maximo tornerà a Roma per riconquistare la sua libertà…
RECENSIONI
Salvate il soldato Massimo
Vi ricordate il fischiare dei proiettili in Normandia? Veniste scioccati dal rumore che faceva una vera pallottola in un vero corpo, nei più crudi 20 minuti di film di guerra visti fino ad ora? Bene, non avete visto niente ad Omaha Beach: immaginate l'effetto di una mazza ferrata sulla faccia di un soldato romano, o quello di una lama (ma che usavano per affilarle?) che taglia la testa di un barbaro, gli schizzi di sangue e trippe. Accelerazioni, ralenty, montaggio adrenalinico...che dite? I soliti effettacci per descrivere la violenza della guerra? Beh, io la battaglia me la son sognata la notte.
Duel
La rappresentazione delle battaglie cartaginesi finisce con il ribaltamento della verità storica e la confusione tra vinti e vincitori: E' l'inizio della fine, per Commodo. Oltre che spettacolare scena di azione (nonché ottima via per confrontarsi con la paradigmatica corsa di Ben Hur), sembra riflettere sui rapporti tra finzione e reale (la storia vera, ma anche la vera identità di Massimo e il suo rapporto con l'imperatore). La rappresentazione è destabilizzante, ma allo stesso tempo il chiasmo tra finto e reale, il fascino del bigger than life genera il mito, l'idolatria, l'eroe, la star. Scott gira questa scena (benissimo) sottolineando con il crescendo del tifo della folla il parallelo e progressivo scollarsi dello spettacolo dalla realtà , il suo sfuggire di mano ai codici del rito e al suo "dovere", gioca a confondere il pubblico in sala con quello del colosseo (è impossibile non trovarsi a tifare con loro per Maximus e la sua testuggine di gladiatori), esalta le possibilità della macchina finzione e di conseguenza,chissà quanto volontariamente, della "macchina cinema".
Morituri te Salutant
Se pure a volte prolisso, francamente noioso in alcuni punti, scontato in parecchi altri, Il Gladiatore è grande nelle scene di violenza, battaglia e duello, acuto nel tratteggiare intrighi e rapporti tra poteri e popolo, riuscito nelle sue tensioni evocative (grazie anche ad una fotografia che osa): la morte sempre presente, i campi elisi, quella mano che sfiora il grano andando incontro a coloro che ritroverà.
Con un cast totalmente indovinato: Phoenix gonfio e decadente, con lo sguardo debole e lascivo, una Nielsen che nessuno potrebbe avere come sorella senza provare tentazioni incestuose, Crowe con quel fisicaccio (ma quanto avrà impiegato a trasformare in muscoli la ciccia di "the insider"?). Ma tutti sovrasta la presenza di Reed, vecchio duellante liberato, e della sua tragica battuta a metà film. Quel "Tutti dobbiamo morire, prima o poi", che suona ancor di più scanzonato e gradasso, epitaffio perfetto per un perfetto interprete, in un film che gioca con la morte. Saluti, sipario.

"Cosa vuole ora il popolo?", chiede Commodo a uno stremato Massimo, "dopo aver visto la storia di un generale che diventa schiavo, di uno schiavo che diventa gladiatore e di un gladiatore che sfida un impero?" "Cosa vuole ora il pubblico?" pare invece domandarsi Ridley Scott per rendere appetibile un genere ormai desueto come il peplum. E la risposta si può riassumere in una sola parola: spettacolo! Ecco quindi una Roma enorme e sfavillante di notevole impatto visivo, una battaglia iniziale che non lesina, grazie anche alla computer grafica, sulle comparse e il sempre efficace scontro tra due personalità forti e diverse. Da una parte Massimo, il gladiatore che vuole vendetta, con un carattere così solido da risultare scolpito nella pietra, e dall'altra Commodo, l'ambizioso figlio di Marco Aurelio, che vuole potere e gloria a qualunque costo, ma soprattutto vendetta per l'amore che il padre non è riuscito a dargli. Tra i due, indipendentemente dalla narrazione cinematografica, vince Commodo, ben interpretato da Joaquin Phoenix e maggiormente sfumato a livello psicologico, forse l'unico personaggio del film che conserva un bagliore di imprevedibilità negli occhi. Massimo invece, con un Russell Crowe che ha il perfetto "phisique du role", risulta molto più prevedibile e anche un po' noioso nella sua granitica solidità di protagonista "buono".
Una volta ammaliati dai prodigi tecnici e divertiti dal ritmo concitato dei sanguinosi combattimenti, non ci sono però grandi novità negli intrighi di corte o nei punti di vista dei personaggi, anche in quelli di contorno. Ma questi sono dettagli in un film dove ciò che conta è "la grandeur", e l'imponenza della rappresentazione degli eventi prevarica la psicologia sottesa all'azione. E' quindi questo che il popolo-spettatore chiede dagli spalti dei cinema? Visti gli esiti al botteghino, pare proprio di sì.

Per mano di un autore che ha rinnovato i generi non meno di Kubrick e Spielberg, torna il kolossal "peplum" de La Caduta dell’Impero Romano, forte della computer grafica, che regala panoramiche mozzafiato sulla Roma antica (ma c'è un'alba che ricorda più Blade Runner) e dovrebbe permettere spettacolari sequenze di battaglia e duello (le bighe alla Ben Hur per il novello Spartacus e, in apertura, l’impressionante scontro con i barbari, sfruttando anche un vero incendio della foresta per disboscamento governativo). Dovrebbe perché Scott delude proprio nella tecnica utilizzata: tutti i dettagli sono montati in modo caotico, subendo accelerazioni e rallentamenti tipici dell'otturatore veloce e del montaggio fatto al computer (in una parola: skip frame), così comodo e così artificioso, fastidioso. Il regista, per fortuna, s'affida anche all'appassionante drammaturgia, da tragedia classica con punte amletiche, della sceneggiatura, e alla bravura degli interpreti. Russell Crowe, nel ruolo (tradizionale ma non meno esaltante) del cavaliere senza macchia e senza paura, portato dal dolore alla vendetta, per due volte alla ricerca della libertà, simbolo di probità contro la corruzione dei costumi dell'Impero, si conferma attore talentuoso e carismatico: con il suo fisico imponente e la sua espressione ponderosa, entra di diritto nell'Olimpo dei grandi. Di fronte ha il perfido (grande) Joaquin Phoenix, una mente contorta da problematici rapporti con la figura paterna, tanto da arrivare al parricidio e all'incesto. Intrighi di corte, rapporti di potere e, soprattutto, il tocco di classe del braccio di ferro fra il gladiatore (il beniamino delle masse) e il Cesare (leader per investitura divina) nell'arena: entrambi temono più i fischi dagli spalti che l'avversario, in quanto l'opinione pubblica può essere cavalcata, pilotata, ma è difficile andarvi contro. Se le civiltà avanzate abbisognano di moralità, la Roma di allora è l'Occidente di oggi e i giochi violenti per sedare il pubblico sono stati sostituiti dalla TV: immancabile, purtroppo, l'accenno finale al "sogno" (americano) previa propaganda repubblicana.
