TRAMA
Ferrara fine anni trenta: il Fascismo promulga le leggi antisemite e gli aristocratici Finzi Contini sono di origine ebrea ma, al momento, l’unico a soffrire della propria estrazione sociale è un ragazzo di classe inferiore innamorato della smorfiosa rampolla di quella famiglia.
RECENSIONI
Opera che è metafora della fine dell’infanzia, della dolcezza della memoria che si scontra con un presente doloroso, parabola discendente di una famiglia alto-borghese e di un’epoca, di un “giardino perduto” che si rivela mera campana di vetro. Ma, soprattutto, è la testimonianza del declino di un grande autore, da tempo solo buon mestierante che ha perso cifre stilistiche proprie: il suo adattamento del romanzo di Giorgio Bassani (che, insoddisfatto della regia, e soprattutto dell’aggiunta delle scene finali con la deportazione, ritirò il suo nome come autore della sceneggiatura) è vuoto, vacuo, imbalsamato sia nella direzione che nelle recitazioni, votato all’estetica del flou (non solo per la fotografia con colori a pastello di Ennio De Guerrieri) per un insopportabile accento patetico, sentimentalistico e melodrammatico. Ha il passo greve del cinema d’autore e la sostanza di un romanzo d’appendice, in cui il dramma sentimentale sfrutta lo sfondo storico tragico per darsi più tono. Il parallelo amore impossibile/persecuzione degli ebrei non funziona, il disegno dei personaggi resta sfuocato, qualunque premessa allegorica e psicologica intrigante resta solo potenziale: De Sica non possiede l’eleganza pregnante di Visconti, non si avvicina nemmeno per idea alle qualità del Vancini de La Lunga Notte del ’43 (altra traduzione dello scrittore Bassani) e fallisce miseramente anche il tentativo di rifare lo Zurlini (che, infatti, doveva dirigerlo) di Cronaca Familiare, fra melò, memoria e afflizione. Eppure, grande successo e Oscar.