Fantasy, Netflix, Recensione

IL GGG

Titolo OriginaleThe BFG
NazioneU.S.A/ India
Anno Produzione2016
Genere
Durata117'
Sceneggiatura
Tratto dadal libro di Roald Dahl
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Una notte Sophie, una bambina che vive in un orfanotrofio a Londra, viene rapita da un gigante, che la porta nel suo mondo, dove vivono altri giganti.

RECENSIONI

Adattamento del romanzo cult di Roald Dahl, il GGG segna il ritorno di Steven Spielberg al genere Fantasy dopo un decennio consacrato a fatti e uomini plausibili o “realmente accaduti e vissuti”. Come in Tintin, unica recente parentesi aperta in seno al suddetto filone, l’autore continua a declinare il suo immaginario sulla scorta di immaginari pregressi, o accoglie nel suo immaginario cosmogonie anteriori sufficientemente conosciute e popolari. Se con Tintin aveva riattraversato il (suo) cinema d’avventura, trasformando il giovane investigatore belga in un emulo del noto archeologo Jones, con il GGG Spielberg sembrerebbe voler rinverdire il viaggio nell’“isola che non c’è” già al centro di Hook: stessi simboli (la finestra come soglia tra realtà e surrealtà), stesse dinamiche narrative (il rapimento come evento dinamico principale), stesso contesto (una Londra senza tempo). Il luogo “che non c’è” del GGG è quello “dove nascono i sogni”, aldilà evocato dal narratore, e demiurgo, dello straziante finale di A. I. Intelligenza Artificiale.
Spielberg materializza qui ciò che in A.I. era uno spazio mentale, metafisico, facendo oltrepassare alla sua eroina Sophie un’ennesima “finestra-soglia”. E’ l’inizio di un periplo solo potenzialmente fantasmagorico nel regno dei giganti, là dove hanno (avuto) origine le rêveries. Tuttavia, la “soglia” non pare più essere il tramite verso un altrove e un altrimenti che solo occhi e menti innocenti possono percepire. La petulante Sophie del GGG, al cui passato e presente Spielberg sembra non interessarsi più di tanto, è certo un “cuore solitario”, ma non ha né l’apertura mentale, né la sensibilità dei suoi avi Elliiot (E.T.) e David (A.I.). E’ orfana e insonne, non sogna ma legge, rispetta le regole e svogliatamente si lascia trascinare dal bonario e dislessico (come Spielberg) Grande Gigante Gentile nell’universo “rovesciato” di quest’ultimo. Il gigante ripristina le facoltà oniriche della piccola, e il sogno di costei coincide con quello forgiato da Spielberg: la sconfitta dei dominanti (i bulli che maltrattano il gigante “nerd”), l’approdo in una nuova famiglia (reale, irreale). Il grande manipolatore gentile Spielberg trova nel GGG un alter ego ideale.
L’immaginario passato sta all’immaginario presente, consapevolmente démodé, come la Storia sta all’oggi. Come nei suoi film storici, Spielberg prosegue la sua personale fuga dal presente, mettendo l’incubo odierno “in incubazione” per cercare di volare lontano: in epoche passate, dove un’azione miracolosa sia ancora possibile; in mondi che non figurino sulle carte geografiche. Il viaggio non è più puro piacere, azione fine a se stessa, intrapresa per la bellezza del gesto. Come Sophie, Spielberg si sente costretto a condurci in un “paese” che è più nostalgia che meraviglia, giusto per presentarci la “fabbrica” di un tempo: la caverna di Méliès, il “ventre” del cinema fantastico dove sono custoditi i nuclei originari, le “scintille” da miscelare e proiettare sulle pareti del cinema.

Nonostante l’intervento della madre di E.T. Melissa Mathison, scomparsa prima dell’inizio delle riprese, la “magia” si manifesta svelando il suo carattere illusorio, riflesso funebre di un “gioco” che sembra rinnovarsi, ma che in realtà non ha più pedine da muovere, se non su terreni inariditisi col tempo. Spielberg è il primo a non riuscir più a sospendere la (propria) incredulità; sa di non conoscere più il pubblico al quale si rivolge, di non avere più un suo pubblico. E l’età dell’innocenza è un ricordo lontano. Non gli resta, dunque, che esibire, sotto forma di testamento metacinematografico, la genesi di visioni passate, l’origine di un artificio ottenebrato dal timore odierno dell’incomunicabilità e dell’afasia. Il racconto diviene allora metafora per adulti accondiscendenti o per bambini mai cresciuti. E la metafora stempera lo stupore.
L’interesse principale del GGG, di gran lunga l’acronimo meno accattivante dell’autore, privo delle scintille di emozione di E.T., o della follia arrischiata e straziante del più sottovalutato dei suoi capolavori (A.I.), risiede proprio nel suo stesso, palese, cosciente, inevitabile “fallimento” teorico ed estetico. Visivamente, Spielberg subisce in parte le costrizioni subite dal Tim Burton di Alice (con esiti per fortuna meno catastrofici); cerca di incorporare forme e figure puramente disneyane che solo a tratti si amalgano in un unicum chiaro e coerente: da un lato una gamma cromatica fatta di colori saturi e accesi (di cui si era vista traccia nel solo Hook, senza dubbio il film più visivamente disneyano del nostro); dall’altro la bile nera, l’ombra oscura d’incubi soggiacenti, i “pensieri funesti” di cui parla fugacemente il gigante gentile.
GGG sarà ricordato soprattutto come un’opera-concetto, teoricamente straziante, minore e a tratti sgraziata e “formattata”, come se il gigante Disney avesse voluto imporre la sua impronta per schiacciare il suo presunto erede. Vittima come il gigante vegetariano del gigante carnivoro Walt, Spielberg sopravvive “abissandosi”: mettendo en abyme il suo cinema; tematizzando il suo stesso presunto gigantismo; rievocando l’accalappiatore di sogni che fu’. Lo stupore oramai non è più negli occhi di chi guarda, ma nella testa di chi riflette osservando le ombre smarrite prodotte da un prestidigitatore che sa di non poter più forgiare sogni che non siano già stati sognati da altri. Dalla magia emozionale Spielberg è passato alla magia auto-demistificante e “ragionevole”. Una magia da scrutare desti perché, se il sogno non riesce più ad ingenerare stupore, il sonno della ragione continua ahinoi a generare mostri.