Drammatico

IL FRUTTO DELLA TARDA ESTATE

Titolo OriginaleTaḥta aš-šajara
NazioneTunisia, Francia, Svizzera, Germania
Anno Produzione2022
Durata90'
Fotografia

TRAMA

Alla fine dell’estate, in un frutteto nel Nord-Ovest della Tunisia un gruppo di ragazze e donne lavora per raccogliere i fichi. Sotto lo sguardo di lavoratori e uomini più anziani, le ragazze flirtano, si prendono in giro, discutono di uomini e litigano.

RECENSIONI

Un luogo che dialoga con le donne che vi si muovono, diventando il loro correlativo oggettivo, una sorta di specchio vegetale: il campo di alberi di fico e le braccianti che raccolgono. È tutta qui, forse, l’idea angolare de Il frutto della tarda estate, titolo italiano di Under the Fig Trees, sotto gli alberi di fico appunto, l’esordio al lungometraggio di finzione della regista tunisina Erige Sehiri. E non è poco. L’autrice, che viene dal documentario, voleva girare un altro film ma ha trascorso una giornata con le raccoglitrici di ciliegie nei campi e ha trovato la strada, trasformando però le ciliegie in fichi con una variazione che non è un dettaglio: «I fichi avvolgono, ma possono anche essere soffocanti – dice -: volevo costruire visivamente l’idea che anche queste ragazze avessero bisogno d’aria nella loro vita, inevitabilmente soffocate dalla mancanza di opportunità e da un ambiente familiare conservatore». La scelta del frutto non è quindi causale: proprio a livello grafico, le mani e le dita delle lavoratrici si intrecciano alle foglie e rami dei fichi, fragili, che si rompono facilmente, così come si può rovinare un frutto se viene maneggiato male. L’equilibrio precario è anche quello dell’adolescenza. Infatti, nel racconto che inizia all’alba e si conclude al tramonto, inscenando una giornata di raccolta, la grande maggioranza sono donne di varie età, insieme a pochi ragazzi e un coordinatore maschio subdolo e manipolatore. Mentre le giovani si specchiano nelle donne più mature, e viceversa, perché le une saranno le altre domani come loro lo sono state ieri, gli uomini le corteggiano a tratti timidamente e a tratti con violenza, sfruttando il loro ruolo dominante, caricatura del caporale e simbolo del patriarcato di Stato. C’è chi chiede un aumento, chi ruba perché le paghe sono troppo basse, chi rifiuta il denaro come paternalismo solo perché è una bella ragazza. Dalla coralità emergono alcune figure in rilievo: le giovani Fidé e Sana, col loro coming of age in movimento, le questioni adolescenziali insieme alle ipotesi d’amore; ma anche Abdou che a diciassette anni è già partito e tornato, dopo la morte dei genitori, e si scontra duramente con lo zio; a contorno ma non minori le donne grandi, ovvero le ragazze invecchiate, che cantano come facevano le mondine.

Sehiri registra le ore di lavoro girando con luce naturale, una sola macchina da presa, nessuna attrezzatura, il campo che vediamo come set principale e il piano sequenza come metodo, coinvolgendo attori non professionisti del posto che parlano in accento berbero («Non si sente mai nel cinema tunisino che infatti lo irride»), insomma sono “coatti” chiamati a replicare un ruolo vicino a quello interpretato nella vita. Seppure sia un film chiaramente scritto, dunque, l’esito che si ottiene è un profondo naturalismo. Ecco allora la principale ispirazione della regista, il nome-nume a cui tutto il cinema franco-tunisino degli ultimi vent’anni guarda e torna sempre: Abdellatif Kechiche. Sulla sceneggiatura e sul montaggio c’è la mano di Ghalia Lacroix, compagna e collaboratrice di Kechiche, colei che scrisse La schivata: il congegno in dialetto allestito nella banlieue in quel film qui si apre e trasloca all’aria aperta, sotto il sole e all’ombra dei fichi. La maggioranza maschile diventa femminile, il contrasto linguistico è meno cruento, ma i problemi sono gli stessi: confronti e scontri, schermaglie, leggeri movimenti del cuore. E c’è anche l’ombra di Pierre de Marivaux, il Goldoni francese, commediografo di riferimento che scrisse Il gioco dell’amore e del caso messo in scena ne La schivata, non direttamente citato ma presente come stato mentale. Lo ammette la regista: «Il marivaudage delle periferie francesi riecheggia la giocosità romantica della campagna tunisina». Prima o poi andrà studiato il riflesso della stella di Kechiche sul cinema successivo. Tutto ciò non serve però a minimizzare Il frutto della tarda estate, al contrario, è un film duro e delicato che funziona a più livelli: come fotografia del lavoro nei campi; come denuncia del maschilismo intrinseco; come ritratto di un gineceo che è proposta di un futuro migliore; come racconto d’estate dei sentimenti, lungo un giorno, chiuso nello splendido canto provocatorio delle donne che tornano a casa.