TRAMA
Una famiglia di Tel Aviv, un esame del Dna, una scoperta: il gruppo sanguigno del figlio è diverso da quello dei genitori.
RECENSIONI
Ennesima incursione nella questione palestinese attraverso l’elaborazione drammatica, Le fils de l’autre è un melò binario installato su una terra di confine: Joseph e Yacine, novelli Isacco e Ismaele, sono Israele e Palestina, figli di due madri e padri. La messa in dubbio dei genitori - però - non è causata da una svolta simbolica o surreale, ma dalla contingenza di un dato scientifico: un fortuito esame del Dna dimostra che Joseph non è figlio dei suoi genitori, subito l’impensabile è tratto biologico certo. Da questa premessa, frequentando l’archetipo letterario dello scambio nella culla, viene inquadrata la situazione di una generazione: i giovani israeliani/palestinesi di 18 anni oggi, che si trovano nel conflitto intrinseco e preimpostato, guerra di padri e nonni, dove l’odio intrecciato è un dato di fatto indiscutibile, semplicemente sottinteso nell’ordine delle cose (simboleggiato dalla figura del fratello Bilal). Nel medesimo spazio ci sono due stati (anche d’animo) che confliggono, ormai costretti dalla Storia: l’uno (Joseph) benestante e privilegiato, si appresta alla leva obbligatoria per poi coltivare la vocazione artistica della musica; l’altro (Yacine) indigente e orgoglioso, vive nei territori occupati e vuole studiare all’estero per esercitare la medicina sul suo popolo. Li separa il filo spinato che contorna una Palestina aliena, sorta di zona da science fiction, solo che - in questo caso - ognuno è dall’altra parte della barricata rispetto a ciò che ha sempre creduto.
La regista Lorraine Lévy evita il giudizio: la questione è complessa e disegna gradualmente un film liminare basato sull’oltrepassamento continuo della frontiera, luogo chiave che ospita i confronti, perché proprio al confine i personaggi si scontrano, ritrovano e abbracciano. Yacine e Joseph ripetono a vicenda l’atto di entrare nello spazio opposto e non speculare (Tel Aviv/i territori), che è poi la loro casa legittima, rovesciando così l’identità acquisita: l’inversione dei corpi è prima di tutto fisica, dunque il palestinese e l’israeliano iniziano a muoversi rispettivamente in Israele e Palestina. Per questo la sceneggiatura de Il figlio dell’altra non suona come riflessione sull’identità delle pedine dentro una narrazione drammatica, ma piuttosto prende la forma di utopia, esortazione politica impossibile e paradossale. Nel conflitto arabo-israeliano - infatti - la trovata della genitorialità invertita (gli ebrei sono padre/madre di un arabo, gli arabi di un ebreo) in realtà vuole suggerire la coincidenza delle parti nemiche: l’israeliano è palestinese e viceversa. Nell’esame incrociato delle foto dei figli le madri individuano tratti famigliari e assonanze: gli opposti si somigliano, le due identità sono la stessa, il combaciare dei campi avversi è la vera provocazione.
Al netto dell’intelligente impostazione della pellicola, più controverso è il suo svolgimento effettivo: molte corrispondenze scattano automatiche e mai davvero problematiche (si prenda la ricchezza di Tel Aviv, sottolineata contro la povertà palestinese) mentre il percorso dei ragazzi - posta la condizione di partenza - convoglia su un binario più scontato e meccanico, secondo le ovvie tappe di una dolorante formazione umana e politica. Il tocco violento nel finale arriva poi facile e gratuito, come un corpo estraneo (la coltellata sulla spiaggia) incollato distrattamente all’intreccio, per un malinteso senso della “tragedia” che nasconde l’incapacità di chiudere verosimilmente la partita drammaturgica. Il film è infine supportato dalla prova persuasiva di tutto il cast e soprattutto Emmanuelle Devos, sguardo vergine dell’occidentale che sceglie il Medio Oriente ma, per uno scherzo scientista del destino, vede il figlio biologico riparare in Francia nell’inconsapevole ritorno alle origini.