TRAMA
Parigi. La giovane Amélie Poulain scopre un tesoro nascosto in casa sua…
RECENSIONI
Prima di parlare del film, un preambolo sgradevole ma necessario. Proseguono le polemiche sul colore della pellicola di Jeunet: fascista, occultamente xenofoba e forzosamente ottimista, o comunista, schierata dalla parte degli umili e forzosamente ottimista? Non ha mai molto senso parlare di destra e sinistra quando si tratta di arte (o aspirante tale), ancor meno, se possibile, in questo caso.
Il mondo di Amélie ha qualche punto di contatto con il nostro, nel senso che si svolge in un luogo dotato di una precisa collocazione geografica e fa riferimento ad eventi realmente accaduti (la morte di Lady D). Ma le categorie della vita “reale” sono le meno indicate per occuparsi di un’opera che le nega in maniera decisa e ammiccante.
Una voce fuori campo, puntigliosa e affettata, ci introduce in un universo parallelo in cui le piccole cose senza importanza di tutti i giorni assumono un rilievo esasperato. Ma il regista e cosceneggiatore non ricerca “la poesia del quotidiano” o altre sottili svenevolezze: il suo sguardo è chiaramente ironico e impertinente, tutti i personaggi, umani e non, che percorrono il suo film hanno la vivacità e lo spessore di un cartone animato, avvenimenti e emozioni suonano plateali e risulterebbero fastidiosi, se non fossero sapientemente stemperati da una dose da elefanti di autoironia.
La “missione” di Amélie (restituire la gioia al suo prossimo) non è indicata come un esempio da seguire, al contrario: la giovane viene presentata come una nevrotica che s’illude di superare i propri problemi dedicandosi completamente agli altri, non per amore dei suoi simili, ma per disamore di se stessa. Le “magie” che compie talvolta funzionano, spesso si arenano, talvolta non si sa come siano destinate a risolversi. Ma l’amore, è ovvio, arriverà anche per lei, e non poteva essere altrimenti, trattandosi di un film parigino prima ancora che francese: quel che conta è che si manifesti in forme adeguatamente stralunate, abbastanza pazze e improbabili da non stonare nel tessuto complessivo del film.
Il buonismo è solo di facciata, una preziosa patina di piacevole imbecillità che rende più vivido l’assunto di fondo, per nulla allegro: la vita è un coacervo di potenzialità che quasi mai riusciamo a cogliere fino in fondo, governati come siamo da un destino bizzarro e insondabile, che non dà spiegazioni e, spesso, non offre ricompense. È solo la voglia di fantasticare (e Amélie trabocca d’inventiva e curiosità) che può salvarci.
Trabocca anche il film di Jeunet, frenetico, colorato, rumoroso e capace di conservare un mirabile senso dell’equilibrio nell’eccesso. Il regista non si accontenta, come molti suoi colleghi anche insigniti da importanti premi, di un’omogeneizzata riproposta del modello televisivo, ma cerca di creare un mondo a parte, coerente e scatenato. La sua Parigi, assolutamente fittizia, non è inamidata ma vive palpita esplode nella dolcezza un po’ caramellosa e contagiosa che caratterizza le grandi tele di Renoir. E, sotto l’apparente semplicità, il regista riesca a inserire invenzioni visive non banali (l’addio al pesciolino è una vera chicca) e a ridurre a brandelli la sua pazza realtà, riflettendo, rifrangendo, moltiplicando, esasperando le immagini e i suoni, incastrando schermi dentro schermi, aggiungendo personaggi e togliendone a suo talento, accantonando la progressione logica degli eventi in nome dell’inebriante impenetrabilità del sogno.
Disorganizzato, confusionario, irresistibile. Al pari della prova non impeccabile, ma incontenibile, di un cast semplicemente unico.
C'e' qualcosa che non quadra nel nuovo film di Jean-Pierre Jeunet, inaspettato successo in Francia e accolto con premi e grandi consensi un po' in tutto il mondo. Parigi e' un luogo da favola, e la fotografia desaturata ce lo ricorda ad ogni inquadratura, la giovane Audrey Tautou, con i suoi grandi ed espressivi occhioni neri, e' davvero deliziosa, i personaggi di contorno delineati con grazia, eppure, anche "Il favoloso mondo di Amelie" soffre presto del difetto (o pregio, a seconda dei gusti) dei precedenti film di Jeunet. Il prevalere, sulla storia raccontata, delle tante trovate registiche: continui virtuosismi che abbinano la raffinatezza visiva alla virata grottesca e che sono ormai diventati la cifra stilistica del regista. All'inizio la genialita' della messa in scena conquista e il prologo, che racconta i primi anni di vita di Amelie, e' davvero irresistibile. Presto, pero', la voglia di stupire prevale sul senso del racconto, a scapito dell'emotivita'. E cosi' la razionalita', messa a dormire dal non privo di fascino mondo di Jeunet, a poco a poco si sveglia, interrompendo un simpatico e romantico sogno.
Ma vediamo di capire perche' succede. Sono vari gli elementi che da carinerie, anche geniali, sfumano nella gratuita'. Innanzitutto, a chi appartiene la voce fuori campo, tanto brillante nella presentazione dei personaggi e spesso presente all'interno del film? Probabilmente e' l'alter-ego del regista, ma a livello narrativo non trova giustificazioni e alla lunga pone un certo distacco tra schermo e spettatore. Soprattutto nella prima parte, inoltre, non si crede molto all'introversione della protagonista che, anzi, sembra sempre avere mille risorse per affrontare la piatta quotidianita'. Anche la scoperta della dedizione agli altri viene affrontata con brio ma scarso approfondimento, lasciando solo intendere la fragilita' di un personaggio che, incapace di affrontare i propri problemi, sceglie di risolvere quelli degli altri, sfogando indirettamente ansie e frustrazioni. Certo, Jeunet racconta in modo originale una sorta di favola, e porsi troppe domande rischia di rovinare la magia. Il fatto e' che, tra effetti sonori dirompenti, trucchi visivi ad ogni inquadratura, una protagonista delineata con problematicita' solo apparente e personaggi di contorno vicini alla "macchietta", se ne ha paradossalmente tutto il tempo. E la narrazione, ogni tanto trova vantaggio nell'applicazione della tecnica, ma spesso ne esce appesantita.
Il finale ottimistico, in ogni caso, riesce a conciliare tecnica e cuore e si esce dal favoloso mondo di Jeunet di buon umore, non proprio leggeri, ma di buon umore.
Amélie Poulain rappresenta il desiderio di candore del nostro quotidiano, magicamente coreografato sullo schermo dalla sapiente mano dell’artigiano del cinema Jeunet, che ad ogni suo film ci ricorda (insieme ad una folta schiera di colleghi, in cui purtroppo si contano ben pochi italiani) che il cinema europeo non ha bisogno di mimare quello americano per essere grande. Pur giocando ripetutamente con fast forward, colori saturi e zuccherosi, animazioni digitali, Jeunet ci racconta con tono fumettistico venato di humor nero una semplice storia d’amore fra outsiders, a loro volta circondati da outsiders, in una Parigi fatta di esterni soleggiati ma mai afosi e di interni sereni ed accoglienti. Impossibile contrastare il sorriso che ci si stampa sulla faccia fin dalle prime battute del film, che emblematicamente echeggia quelli che Amélie stessa ci mostra quando racconta a noi della sua passione per il cinema: invece di guardare uno schermo, per un attimo ci ritroviamo a specchiarci. Jeunet gioca con lo sguardo e la confessione in macchina, con commenti a latere che dipingono la realtà psicologico-emotiva del suo personaggio, che contemporaneamente ci viene raccontato da una sardonica voce off, apparentemente imparziale ma molto Bon Chic Bon Genre, ammiccante e sapientemente misurata. L’affezionato fruitore di sala cinematografica riconosce nel film tutti i prestiti, le influenze, le strizzate d’occhio ai suoi predecessori; tuttavia Jeunet rinnova il repertorio coniugandolo ad uno stile fresco (ma non innovativo) e leggero, con movimenti di macchina lunghi e ipnotici, volutamente visibili e indubbiamente affascinanti. Una su tutti, la scena dell’inseguimento del ‘fantasma’ dalla stazione del metrò, alla scalinata, alla strada, con lo smarrimento dell’album da cui scaturisce gran parte della vicenda.
Nonostante la tendenza a simpatizzare quasi immediatamente con la sapientemente dosata naiveté di Amélie, resta vano il tentativo del battage pubblicitario che accompagna il film ad erigerlo a fenomeno di costume: indubbiamente accattivante e ben confezionato, il film è un saggio di artigianato cinematografico, aggiornato e intelligente, ma non controcorrente o particolarmente coraggioso. Un film gradevole e molto cinematografico, diretto con talento e misuratezza, che contribuisce ad infonderci nuova fiducia nelle possibilità dei “giovani” autori europei quando adeguatamente finanziati.
A Jeunet, con Alien Resurrection, era riuscito un mezzo miracolo: contaminare coi propri eccessi immaginifici squisitamente “europei” una megaproduzione hollywoodiana, per giunta appartenente a quel filone codificato e artisticamente inibitore come quello delle n-logie, senza fallire, ma anzi trasgredendo splendidamente lo spirito della saga aliena senza tradirlo. Tornato all’ovile francese, il divorziato da Caro riprende invece in Le Fabuleux Destin D’Amélie Poulain il discorso destrutturato e surreale di Delicatessen, con la narrazione che procede come un flusso di sketch non privo di soluzioni di continuità e un’intrigante anarchia narrativa. Il problema è che mentre in Delicatessen il collante della spontaneità e della sincerità sorreggeva il tutto e scongiurava il pericolo “maniera”, che pure faceva già capolino, in Amélie fa il suo poco trionfale ingresso una buona dose di furbizia e premeditazione che stride, oltretutto, con quell’ “elogio della stramberia” che il film stesso vorrebbe forse fare (ed essere). Questa fiaba grottesca e surreale, girata come un cartoon umanoidizzato, spruzzata di LSD(igitale) e infarcita fino alla saturazione di virtuosismi cinematografici d’ogni sorta, è in realtà controllatissima, asettica e priva di epicentro emotivo. Gira a vuoto. Jeunet, “finalmente” libero di (ri)dire e di (ri)fare quello che vuole, sembra sapere benissimo come “dire” per contentare i patiti dell’8 volante dello “stile”, ma non si chiede cosa. La vicenda della giovane dispensatrice di felicità, oltre a mancare di coerenza interna (Amélie, in fondo, non è un granché nell’assolvere la propria missione), mostra presto la corda e si smarrisce per strada, in nome di una macchinosa rincorsa all’happy end amoroso prevedibile quanto procastinato fino alle soglie dello sbadiglio. E non lascia nulla; ma non un nulla “funzionale”, quella sorta di McGuffin che permette ad esempio a De Palma di portare avanti il suo lucido discorso teorico “puramente” (in senso etimologico) cinematografico, bensì un nulla a suo modo ambizioso, che si vorrebbe poetico nella sua apolgia della pazzia moderata, della carineria grottesca e dei castelli in aria. Certo è che grazie anche a un’interprete perfetta come la Tautou (prossimamente e ubiquamente su molti schermi), il colpo a Jean-Pierre Jeunet è riuscito alla perfezione e il suo film sta mietendo successi un po’ ovunque. Buon per lui. Personalmente mi auguro che il suo indubbio, esuberante talento visionario venga al più presto “reingabbiato” da qualche produttore lungimirante e costretto ad affiorare in qualche operazione a rischio di “standard”…
Difficile immaginare la pur brava Emily Watson, a cui si era pensato per il ruolo di Amelie, al posto della brunetta tutta occhi e sorriso da bambina che abbiamo visto nel film. L'incarnazione è perfetta, l'identificazione definitiva.
Difficile anche inserire questa pellicola nel quadro della cinematografia francese. Il favoloso mondo di Amelie è nuovo e vecchio insieme, nello spirito e nei contenuti. Nuove le incessanti invenzioni del regista e della sceneggiatura, vecchie alcune trovate e la positività agrodolce, quella "malinconia che fa sorridere" che pervade la storia.
La narrazione quasi scoordinata che ci illustra il mondo di Amelie con freschezza a tratti spumeggiante, a tratti surreale, a tratti intimista, avvolge lo spettatore e lo fa tuffare, consenziente, in una dimensione parallela. Un presente che potrebbe benissimo essere anche passato, una Parigi che potrebbe essere anche un paese o una città diversa. I colori accesi ed i volti espressivi, imperfetti, dei protagonisti, confermano che non siamo nella realtà, ma che troveremo molti elementi di essa.
Amelie è una favola, eppure non lo è del tutto. Noi lo sappiamo fin da subito, e ci lasciamo trascinare. Accettiamo l'eterno, divertente gioco del "piace e non piace", partecipiamo, sapendo che le cose più insignificanti sono quelle che possono dire di più di una persona. I personaggi vivono così delle mille invenzioni e di quella ricercata bizzarria che lascia un segno nella memoria dello spettatore. Ognuno con la sua mania, che rende più sopportabile la vita, ma che celebra anche l'importanza dei "piccoli piaceri quotidiani". Il non senso che diventa senso: il nano da giardino, i sassi nell'acqua, le fototessere, e, per Amelie, la missione di far del bene a qualcuno. Non altruismo, non voglia di essere amata (fugge sempre per evitare la prospettiva della gratitudine altrui), ma bisogno di dare un senso ed un obiettivo alle giornate.
Facile identificarsi, divertirsi, emozionarsi. Lo sguardo del regista si posa con tenerezza non zuccherosa (la risata arriva sempre in tempo ad evitare eccessi di miele) su oggetti e persone, su quei giochi e quelle particolarità che rendono il film un divertimento non fine a se stesso. Per gli spettatori il cui sguardo è in sintonia col suo Il favoloso mondo di Amelie diventa uno dei piccoli piaceri da coltivare.
Una piccola scatola arrugginita, avvolta (nascosta) nel mistero, colma di antichi giochi preziosi, inutili agli occhi dei più, traboccanti di significato per chi torna o resta bambino e sa cogliere il lato magico dell'esistenza, deformare le piccole cose della vita e tradurle in fantasia, La Mia Vita in Rosa e Zazie nel Metro, tenerezza, predestinazione, bizzarria. La Montmartre sognata da Jean-Pierre Jeunet è edificata sulla frutta candita, il realismo poetico alla Prévert, gli incantesimi di René Clair, i fumetti retrò, le favole sentimentali, passi surreali, soggettive aliene, leggerezza agrodolce, briose fantasie alla Richard Lester, colori pastello, cuoricini alla Peynet frullati nell'amena follia di Delicatessen e Jules e Jim. Amélie e la Poetica del Fanciullino trovano riparo in un mondo buffo e fatato per allontanare il dolore, apprezzare i piccoli piaceri, consacrarsi agli altri per non confrontarsi con se stessi, pennellare di magia le distanze fra le solitudini. L'infanzia segna per sempre, nel bene o nel male e l'immaginazione (che diventa Arte, Cinema, Sogno), a volte, diventa pericolosa nel momento in cui possiede anziché soccorrere la "vita vera" (vedere il tipo geloso di Dominique Pinon, l’amore virtuale di Amélie o il misterioso uomo delle fototessere che si materializza in un tecnico). Fra tante vittime di pratiche maniacali e nevrosi (indimenticabile la ricca galleria di personaggi), l'amour-fou di Amélie rischia di spegnersi in un anonimo elenco di cose che piacciono e non, di esaurirsi in una divertente ma pur sempre solipsistica caccia al tesoro, di accontentarsi dell'alito di uno spettro in un tunnel dell'orrore. Al grido "Basta con Lady D, viva Renoir!", l'occhio di un pittore dalla mano di vetro coglie l'espressione giusta per l'innamorata ritratta (Amélie), la ringrazia dei monumenti ai vari Toto le Heros del quotidiano (i sognatori) e la spinge ad uscire dal quadro, per non incontrare quello gnomo che vive per procura(re)...stimoli agli altri. Apoteosi, prodigio del dettaglio.