TRAMA
L’esperienza sofferta di una famiglia indiana trapiantata a New York.
RECENSIONI
A cosa serve questo film? E' il macigno pesante che aleggia sui titoli di coda, quando è chiaro come The Namesake si palesi, un'operazione apertamente inutile: Nair disegna lo sfondo etnico imbevuto di tradizione ma non cura le sfumature né si nasconde nel salvagente della commedia - come Monsoon Wedding -, intavolando dunque un discorso tremendamente serio e seriamente tedioso. La regista dimostra di conoscere i classici russi (ergo: la questione ha uno sfondo letterario), procede per scene madri, matrimoni e funerali, confermando il dato rituale come prevalente nel suo cinema e, nell'assemblaggio generale, presentando una discreta coppia di soluzioni ma privandole bruscamente di cenni di sviluppo. L'Occidente corrompe il dorato mondo orientale, secondo l'autrice, e inietta biasimevoli costumi come il vizio delle corna (la crisi coniugale di Gogol), ma il problema è più sfaccettato dato l'annoso divario nelle condizioni di vita dei due mondi (il disastro ferroviario). Una teoria, quella del film, che si perde nella minuta esposizione del discorso; i personaggi non vivono le sensazioni ma, più comodamente, le raccontano (Voglio essere libera, confessa la madre) in un processo maniacale di esplicitazione del sottinteso, volto a sottrarre all'opera ogni spunto interpretativo di adeguata sospensione. L'indiana gira una lunga chiacchiera da salone, non rivitalizzata dai continui momenti cerimoniali ma anzi, operando sempre la scelta più scontata sul piano estetico (la visita al palazzo Taj Mahal, meraviglia del mondo) e quella immediatamente leggibile a livello sostanziale, dove citazioni e/o metafore sono sempre testuali. Il duello culturale tra emisferi, le peripezie della famiglia Ganguli, la formazione ibrida della seconda generazione non possono considerarsi valori aggiunti, perché prigionieri di un'implacabile pesantezza di fondo, dilagante presto lo stereotipo. The Namesake non discute mai la sincerità di Mira Nair, appassionata al costrutto etnico e sempre più lodata al bancone dei festival, ma condanna all'ergastolo la tela bianca rappresentativa e la noncuranza nella costruzione dell'immagine.