Drammatico

IL DESERTO DEI TARTARI

TRAMA

Il tenente Giovan Battista Drogo viene inviato presso la sperduta fortezza Bastiani. Lì, ai confini col deserto, una guarnigione militare attende da mesi l’arrivo di un nemico che sembra non doversi mai materializzare.

RECENSIONI

La sofferta eleganza di Zurlini, l’austera disperazione di Zurlini, la vulnerata malinconia di Zurlini: segni inconfondibili della grandezza di un cineasta colpevolmente, vigliaccamente sottostimato e misconosciuto. In 56 anni di vita e 22 di tormentata attività cinematografica Valerio Zurlini (1926-1982) ha girato otto splendidi lungometraggi e una manciata di cortometraggi pressoché invisibili. Il deserto dei tartari (1976) è il suo ultimo film, non il suo capo d’opera probabilmente, ma senz’altro il titolo più estremo e radicale di una filmografia tanto scarna quanto personale e insieme aliena dagli “autorialismi” tipici del cinema della modernità. Involontario cineasta d’intervallo (tra una pellicola e l’altra passano all’incirca tre anni), con Il deserto dei tartari Zurlini firma il suo testamento estetico, spingendo in pieno territorio nichilista quella poetica dell’assenza e dell’autodistruzione che rappresenta perfettamente la sua parabola esistenziale e la sua straziante riflessione stilistica. Eppure come adattamento, occorre ammetterlo, non ci troviamo di fronte a un film memorabile: spesso legnoso, ampolloso e costipato nella sceneggiatura fedelmente didascalica di André Brunelin, l’intreccio procede a fatica, registrando esiziali battute d’arresto in corrispondenza delle sequenze più corposamente dialogate. Non soccorre certo la bizzarra eterogeneità del parco attori che accosta, in una sorta di pastiche internazionale, gli strepitosi Jacques Perrin (Giovan Battista Drogo), Max von Sydow (il capitano Hortiz) e Laurent Terzieff (il tenente von Amerling) agli spaesati Fernando Rey (il tenente colonnello Nathason), Jean-Louis Trintignant (maggiore-medico Rovine) e Philippe Noiret (il generale), passando per l’incolore Vittorio Gassman (il colonnello Filimore) e l’imbarazzante Giuliano Gemma (maggiore Mattis). Ciononostante Zurlini riesce ad esprimere senza remore le proprie doti di regista squisitamente visivo nella resa delle atmosfere, nella trasfigurazione simbolica degli spazi e nella creazione di un universo luministico in bilico tra vigore plastico e smaterializzazione metafisica. Merito del cineasta bolognese è innanzitutto la scelta della location per la fortezza Bastiani: si tratta dell’incredibile roccaforte di Bam nel sud est dell’Iran, scoperta per caso sfogliando la rivista «L’Œil» insieme a Jacques Perrin. Lavorando in sottrazione, Zurlini riesce a ricavare dalla poderosa struttura architettonica un incorporeo santuario dell’assenza, un autentico “avamposto morto che si affaccia sul nulla”. Il cineasta, spalleggiato dal direttore della fotografia Luciano Tovoli, trasforma poi il deserto in vero e proprio luogo della mente, una spazialità proiettiva generatrice di miraggi e minacce, desideri e timori, paure e speranze. Dominano i grigi, i marroni e i neri sotto un cielo innaturalmente azzurro; il nitore metafisico della luce si fa vettore d’astrazione e l’inquadratura trascende in forma simbolica: in questo Il deserto dei tartari messo in scena da Zurlini è addirittura più pregnante e suggestivo di quello descritto da Buzzati. Almeno due le sequenze da incorniciare: la prima è quella, raffinatamente geometrica, della preghiera nel cortile della fortezza, la seconda, tra Burri e Bresson, è quella del suicidio fuori campo di Hortiz. Musiche marzialmente tartassanti di Ennio Morricone. Sia detto a scanso di equivoci: chi scrive ritiene Valerio Zurlini uno dei maggiori cineasti della storia del cinema italiano.