Il Concorso

Il vincitore del festival, Un cuento chino di Sebastián Borensztein (voto: 4.5), è un film argentino che si fregia di un umorismo straniato e paradossale: da una parte il regista all’opera terza si ispira vagamente a Kaurismaki e certo cinema del Nord, dall’altra raccoglie la mescola tra ironia e malinconia che segna lo scenario argentino degli ultimi anni (cfr. Bombón – El Perro). Buddy movie che racconta l'amicizia tra un solitario ferramenta e un giovane, spaesato cinese, la pellicola mette in fila una serie di momenti comici più o meno riusciti che non vanno oltre l’episodio, alla disperata ricerca del sorriso; tutto il film ruota intorno all'idea di assurdo che – a livello metaforico – è incarnata dalle collezione di “notizie strane” effettuata dal protagonista (l’apprezzato Ricardo Darín). Lavoro leggibile che vuole piacere, all'insegna del simbolo evidente, il premio Marc’Aurelio galleggia tra alti e bassi fino alla fine, dove il riferimento alla guerra delle Falkland arriva pesantissimo, didattico e fuori luogo.
Decisamente più assennato suona il premio della giuria a Voyez comme ils dansent (6.5) di Claude Miller. Qui la storia di un performance teatrale (James Thiérrée) viene gradualmente svelata dall’incontro tra due donne, Lise e Alexandra, che lo hanno amato prima della sua misteriosa scomparsa. Il regista de La petite Lili, come in quel film, sviluppa la riflessione sull’universo teatrale e la sua tracimazione nella vita vera: Victor con le due donne si comporta agli antipodi, sottolineando un doppio carattere che si specchia nel terzo, quello sul palcoscenico; in tutti i casi è sempre una recita. Ricognizione sulla natura dell’uomo e la necessità della recitazione, quello di Miller è un lavoro discontinuo che può sembrare datato; a ben guardare si rivela però sincero e complesso, con un senso della rappresentazione che culmina in singole scene (Victor, alle prese con la doppia recita teatro/vita, perde i sensi), non del tutto svelate ma aperte all’interpretazione. Una splendida Marina Hands vince la partita attoriale.
Il film di Pawel Pawlikowski, The Woman in the Fifth (4.5), seminava una certa aspettativa: invece l’autore di My summer of love firma qui un pasticcio meta-letterario, attraverso il pedinamento di uno scrittore americano (Ethan Hawke) e il suo vagabondare a Parigi. Aprendosi con una sequenza disturbante, la violenta lite coniugale, l’opera si lancia nel progressivo compenetrarsi tra realtà e finzione, ovviamente senza distinguere nettamente i due piani, tentando prima il noir e poi la storia di fantasmi; peccato che i luoghi e figure del film siano ripetizioni di stereotipi, dai malavitosi alla ragazza dell’Est, dal misterioso lavoro di Rick (una puntata nel nonsense) alla donna del titolo (Kristin Scott Thomas), rimasticatura di tanta letteratura precedente.
The Eye of the Storm (6.5), favorito della vigilia, alla fine ottiene una menzione secondaria (premio speciale della giuria). La pellicola di Fred Schepisi è certamente la più elegante in concorso: tratta dal romanzo del Nobel Patrick White, racconta la riunione di famiglia al capezzale di Elizabeth (Charlotte Rampling), scandita dai flashback sul passato del nucleo e sulla “tempesta” che lo divise per sempre. Oggi, nella gabbia dorata degli Hunter, va in scena la recita dei figli – uno è attore di teatro – esattamente come della madre, che interpretano un riavvicinamento fittizio in punto di morte per ragioni materiali. Divinamente scritto e interpretato (i figli sono Judy Davis e l’idolo Geoffrey Rush), sulla falsariga del teatro inglese e dell’aforisma wildiano (– Oggi è di scena a teatro, signore? – Dipende cosa intendi per teatro), pieno di scene “veloci”, battute sagaci e dolori sottintesi. Schepisi impagina la storia con una solida gestione di spazi e personaggi, affrontando gli archetipi a viso aperto, soffrendo solo la prolissità della seconda parte che rimanda più volte la chiusura.
Tra gli italiani in competizione, vale la pena soffermarsi su Il mio domani (5.5) di Marina Spada. Pellicola largamente imperfetta, e segnata anche dal one woman show di Claudia Gerini (che nelle curve più drammatiche sbanda vistosamente), ma che d’altra parte sottolinea la singolarità della regista milanese: dopo Come l’ombra ecco la conferma che non bisogna per forza raccontare i massimi sistemi, ma si può anche riprendere solo una donna qualunque che desidera un cambiamento. Attraverso una Milano fisica e quotidiana, dunque, si seguono i piccoli dolori senza significato della protagonista, dalla morte del padre all’instabilità sentimentale, gesti accennati e scenari suggeriti. Appena si libererà delle poche scene madri (la lite urlata con la sorella) e di alcune pesantezze simboliche (Monica che tiene un corso sul cambiamento), l’autrice con il suo minimalismo potrà regalarci qualcosa di davvero significativo.
Per il resto, la giuria romana indica come migliore attrice Noomi Rapace in Babycall , il migliore attore è Guillaume Canet in Une vie meilleure. Non vengono premiati Hotel Lux di Leander Haussmann (Germania) e Hysteria di Tanya Wexler (Gran Bretagna), ma entrambi guadagnano l’uscita italiana nel 2012. Completano il concorso l’americano Magic Valley di Jaffe Zinn, il coreano Poongsan di Juhn Jaihong, il cinese Love for Life di Gu Changwei, che nella competizione del 2007 aveva impressionato positivamente con Li Chun (And the spring comes). E gli altri italiani – in rigoroso ordine alfabetico – Il cuore grande delle ragazze (Pupi Avati), Il paese delle spose infelici (Pippo Mezzapesa) e La kryptonite nella borsa (Ivan Cotroneo).