Drammatico, Recensione

IL COLIBRÌ

TRAMA

Al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. La sua vita coniugale sarà un’altra, a Roma, insieme a Marina e alla figlia Adele.

RECENSIONI

«Questa è la parte più bella di tutta la letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri  universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni.»
Francis Scott Fitzgerald

A meno che la storia non possegga la forza drammatica di Frankenstein, per citare un famoso esempio di racconto epistolare e transmediale, risulta una sfida coraggiosa e complicata quella di riuscire a far emergere qualcosa di cinematograficamente rilevante da un romanzo che ha, come impalcatura costitutiva, un copioso carteggio tra due personaggi (e non solo). Infatti Marco Carrera, il colibrì, lo sguardo attraverso il quale lo spettatore vede, e la sua amata eterna, quasi una musa dell’amore corrisposto, eppure solo sfiorato, mai consumato (termine orribile, ma tant’è), Luisa Lattes, nel romanzo Premio Strega di Sandro Veronesi si scrivono. E noi lo sappiamo, perché il film ce lo dice. Gli autori – Francesca Archibugi, qui alla sceneggiatura con Laura Paolucci e Francesco Piccolo – sono ben consapevoli dell’insidia e corrono comunque il rischio, sapendo che la risultante di un disequilibrio tra l’andamento a mosaico della narrazione romanzesca e il corrispettivo filmico in flash-back e flash-forward potrebbe far scaturire un abuso di tell, di raccontato, insomma. Non è un rischio di poco conto, nell’epoca del predominio – di solito sciocco, per la religiosità con cui viene inteso – dello show, che contamina la narrativa, ma diviene essenziale, per ragioni che potremmo definire statutarie, sul grande schermo; ancora di più in un racconto come questo, impegnato a trovare e ricalibrare di continuo la messa a fuoco della volontà e delle intenzioni del protagonista, non sempre affini le une con le altre, non sempre chiare finanche a lui stesso.
La valenza del titolo-simbolo si estende quindi, in un gioco quasi meta-cinematografico, allo sforzo necessario per un adattamento efficace del romanzo di Veronesi, tanto più che stiamo parlando di un lavoro celebre e celebrato. Agli spettatori è richiesto – e lo si vede, per esempio, nella sequenza dell’annegamento di Irene, anticipata da una scena analoga, ma con diverso epilogo – di scovare da soli le sfumature. Alcune sono lampanti e peraltro dichiarate: il colibrì è un uccellino minuscolo, come troppo piccolo per la sua età era Marco, sottoposto a una cura ormonale per fare in modo che potesse omologarsi ai coetanei, diventare uguale a loro. Il colibrì riesce, grazie alla stupefacente mobilità delle ali, a volare persino all’indietro. Riesce pure a restare sospeso in aria, come se fosse immobile. L’immobilismo, che a prima vista può sembrare un difetto nella fermezza, una sorta di indolenza da animi fragili e poco strutturati, è in effetti la risorsa dei resilienti, termine ormai abusato, ma che in gergo psicologico rappresenta «la capacità di un individuo di reagire di fronte a traumi e difficoltà.» (Oxford Languages)
È qualcosa di più: è, come ci ricorda la Treccani, la capacità di cogliere dei segnali e prevenire la crisi; nondimeno si configura come l’abilità di utilizzare le avversità a proprio vantaggio, in un processo di crescita personale.
Ma il piccolo volatile, ci dice Luisa Lattes in un dialogo intimo con Marco, che nel romanzo è naturalmente una missiva, dal sapore quasi biblico, la Prima lettera sul colibrì, ha a che fare persino con la trascendenza: «[…] presso gli aztechi, tranne che per i re che erano dèi, il destino ultraterreno di ognuno dipendeva dal come e dal quando la persona era morta […] Infine i guerrieri uccisi in battaglia e le vittime immolate in sacrificio si univano agli aiutanti del sole nella sua battaglia quotidiana contro le tenebre. Ma dopo quattro anni si sarebbero trasformati in colibrì o in farfalle.» (Sandro Veronesi, Il colibrì, Milano, La nave di Teseo, 2019)
Ed è forse una chiave di lettura più annodata all’imponderabile quella che ci fa apprezzare meglio sia il romanzo di Sandro Veronesi che il film di Archibugi, e magari anche l’interconnessione dell’uno con l’altro, un’interconnessione che qualche volta ci sembra tentennare o arretrare, ma che alla fine ripropone proprio il gioco meta a cui accennavo poco fa: quanti battiti d’ali al secondo sono necessari per mantenere la stabilità narrativa, cambiando medium?
L’idea a cui mi riferisco si correla con il concetto di legami, intesi in una forma fisica – dunque inevitabilmente caduchi, fallimentari, come quello tra Marco e la moglie Marina – e in una forma di pura evanescenza, di essenza metafisica (anche se non cattolica, non in modo esplicito, almeno). Quest’ultima modalità è incarnata da due donne polari: Irene, la sorella suicida, e la figlia Adele.

La morte di Irene interessa un scena breve, dolorosa e indolore allo stesso tempo, come se gli psicofarmaci che la giovane donna ha usato per stordirsi avessero obnubilato anche la nostra capacità di leggere la portata del gesto che compie; tuttavia non possiamo sfuggire al suo giudizio: Irene sa meglio degli altri, sa prima degli altri, dice la Luisa ragazza a Marco. Nel romanzo omonimo, Marco si scriveva anche col fratello Giovanni, nel frattempo trasferitosi – fuggito? – negli Stati Uniti: «“Bisogna stare molto attenti a sfogarsi, Lorenzo. Sempre.”
Lorenzo? E chi cazzo è questo Lorenzo? Non sapevamo nulla, di lei, Giacomo. Lei sapeva tutto di tutti noi, ma noi non sapevamo nulla di lei.»
L’impressione che se ne trae – da questo come da altri scambi – è che i due fratelli si stiano sforzando di sondare il mistero di Irene perché è solo attraverso questo che possono realizzare appieno l’afflato del colibrì: non stare fermo per inerzia, ma stare fermo per non soccombere alle correnti d’aria. Il loro fallimento riporta al primo significato del legame, quello familiare nell’accezione più borghese: Marco e Giovanni sono fratelli che devono comportarsi come tali, mantenere il ruolo, al di là di una vecchia diatriba sulla responsabilità per la morte della ragazza.

Irene è una donna-ponte, esclusa dalla socialità familiare a causa del suo disagio, ma in grado di cogliere segnali non immediatamente captabili e rimandarli alla fonte, trasformati. Irene è un colibrì a cui non si è voluto credere, che anzi si è scelto, con una certa dose di inconsapevolezza affettiva, di zavorrare. La giovane non può volare, non può stare ferma, può solo soccombere a un richiamo – un filo? – che la induce ad acconsentire all’eco sordo dei flutti e la abbandona poi sul fondale marino (con gli occhi aperti, ancora a vedere, a scrutare il futuro).
Adele invece sente un filo invisibile attaccato alla schiena: è per l’assenza del padre distratto, sentenzia uno specialista (nel romanzo si fa riferimento al nome con cui si fa chiamare dai bambini: Mago Manfrotto… una garanzia!). Non sono convita sia questo; penso piuttosto che la figlia di Marco e Marina abbia ereditato la magia emotiva della zia, ma abbia imparato, al contrario della parente che non ha mai conosciuto, a pronunciare le parole per dirlo. Il suo corso sarà simile – negli esiti, non negli intenti – e sarà proprio un filo – un groviglio di cavi – questa volta ben visibile, persino reiterato alla vista, in un primo momento come una macabra visione, a segnarne il destino.
Eppure questa morte, anche grazie al trait d’union interpretato da Nanni Moretti, uno psichiatra che strappa il filo deontologico della professione e cambia vita, sarà l’epifania di Marco Carrera.
Incapace fino a quel momento di sgrovigliare i fili della propria esistenza, Marco trova nell’accudimento necessario della nipotina orfana la ragione prima della propria forza; l’uomo si scrolla di dosso il peso di una profezia identitaria (io sono, io faccio, io devo), anche quella di profonda matrice borghese, e comincia a provare a vivere sul serio.
Archibugi enfatizza la svolta in un ampio monologo, che l’autore invece riportava a posteriori, come ricordo, in una conversazione con lo psichiatra Carradori: «A me la vita che vivo non fa schifo, anzi, mi piace, perché diversamente da tante altre vite la mia ha uno scopo, e questo scopo è consegnare al mondo l’uomo del futuro, che per immenso e doloroso privilegio mi è stato dato di allevare.» Veronesi comprimeva l’auto-agnizione in un motto laconico, pronunciato verso un vecchio amico, da sempre accusato di portare iella e che di quella nomea aveva fatto una specie di inquietante professione: «E anche tutto l’amore che è stato sparso nel mondo, tutto il tempo che è stato sperperato e tutto il dolore che è stato provato: era forza, tutto, era potenza, era destino, e puntava lì. “I lupi non uccidono i cervi sfortunati, Duccio – dice – Uccidono quelli deboli.”»
La debolezza, come mania di controllo su tutto, si tramuta nella forza del controllo su di sé, sulle proprie scelte e il proprio destino. Fino all’ultimo, fino a una scena di sincera ricomposizione amorosa: non la vita che si deve, ma quella che si può e si sa.

Infine léger comme l'oiseau, et non comme la plume: eccolo, il colibrì.