Drammatico

IL CIGNO NERO

Titolo OriginaleBlack Swan
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata103'
Scenografia

TRAMA

L’esistenza di Nina, una ballerina di una compagnia di New York, è completamente assorbita dalla danza. La ragazza vive assieme alla madre, la ballerina in pensione Erica, che sostiene fortemente l’ambizione professionale della figlia, soprattutto ora che il direttore artistico sta per scegliere la protagonista per la produzione che apre la nuova stagione, Il lago dei cigni.

RECENSIONI

Oltre a una storia di ambizione artistica e personale, della competizione all'interno di un mondo chiuso, di un contrastato rapporto madre-figlia che si consuma in un ambiente non meno soffocante e all'ombra della medesima arte blindata, Black swan si rivela soprattutto l'esposizione di un travagliato percorso umano: Nina è un essere che ha conosciuto solo disciplina e rigore, castrato da una madre frustrata che ha proiettato egoisticamente su di lei ogni aspettativa, una creatura che non ha avuto mai modo di esprimere se stessa, cui non è mai stato concesso di essere autentica. Black swan è dunque la storia di una ricognizione di sé, della conseguente scoperta del proprio lato oscuro (Nina sa essere un perfetto cigno bianco, ma deve imparare a essere anche quello nero [1]), dello sforzo per raggiungere il dominio del proprio corpo e della propria sessualità (Thomas invita Nina a masturbarsi per arrivare a sentirsi), di istanze intime che le circostanze hanno sempre messo a tacere. Alla luce di queste mancanze Nina è dunque una danzatrice che per essere perfetta dovrà associare all'inappuntabile tecnica (il lavoro, la fatica, la cieca osservanza delle regole che sono stati il suo credo) quella verità sensoriale e quell'abbandono al movimento che permetterebbe alla Grazia di possederla (la passione reale, la percezione di un sentimento che non ha mai provato).
Lo splendido inizio, con il morphing che trasforma i danzatori in creature che spiumano, risultando essere un sogno, dà immediato conto della strada percorsa dal film, all'interno dell'anima della protagonista: tutta la vicenda si snoda attraverso lo specchio deformato del percorso interiore che Nina compie, le situazioni circostanti ne vengono dunque plasmate, perdono la loro sembianza oggettiva, risultano mere proiezioni della psiche della giovane: il centro nevralgico del film di Aronofsky, cosa non nuova per il regista (si vedano i suoi due primi lungometraggi) è insomma la mente del personaggio principale.

Come nella coreografia che è chiamata a interpretare, Nina, nella nevrotica preparazione del suo debutto da protagonista assoluta, si trova di fronte alle primarie dicotomie tra Bene e Male, tra Eros e Thanatos (il doppio è la base elementare dell’intreccio, ribadito dagli immancabili specchi): la gelosia e la rivalità che sente su di sé sono quelle che lei per prima prova per le sue colleghe, la seduzione che il coreografo Thomas esercita su di lei riflette quella che ella stessa tende a esercitare su di lui, l'ammirazione per la precedente étoile Beth (ruolo ricoperto significativamente da un'altra ex adolescente-prodigio, Winona Ryder) sottende l'inconfessata ansia di soppiantarla e la depressa consapevolezza del carattere effimero del suo prossimo trionfo artistico: dietro l'anima candida nella quale si è trincerata per anni si librano infine le ali tenebrose del cigno nero che si è sempre negata di essere.
Il viscerale disorientamento di Nina è segnato dalla perdita della sua innocenza, dalla coscienza della duplicità della sua natura, dall'approdo a quell'età adulta alla quale la genitrice non le aveva mai concesso di accedere: l'intimo terremoto che ne consegue porta la protagonista a non riconoscersi più, a una delirante crisi di identità, a vedersi letteralmente e ripetutamente fuori di sé, a consapevolizzare che il debutto, più che una prova professionale, è un banco di prova esistenziale, che la perfezione alla quale il coreografo Thomas vuole condurla è un obiettivo che va conseguito a qualsiasi costo, fosse pure la sua morte.

Aronofsky come in The wrestler pone al centro dell'attenzione spettatoriale un corpo nello stesso tempo performante e ferito (una splendida Natalie Portman, sempre in scena) e lo enfatizza usando con grande efficacia la camera a mano, non lesinando in soggettive, curando alla perfezione le fondamentali sequenze di ballo, donando movimento e rutilanza costanti alle sue immagini, evitando i primi piani (la fotografia è del fedele Libatique). Supportato da un cast perfetto (la Hershey è una virago d'alta classe, Cassel un Thomas diabolico, la Kunis un'autentica rivelazione) e dalle musiche di Clint Mansell (che fa risuonare le note di Ciaikovskij, fuori dal teatro, nella vita stessa di Nina) Aronofsky gira un film che strizzando l'occhio ai classici (Eva contro Eva, Scarpette rosse...) non disdegna gli incubi contemporanei (Cronenberg abita qui) e non mollando per un solo istante la tensione, sfodera un crescendo poderoso, chiudendosi con la fatale, irresistibile, esaltante apoteosi.

[1] Ne Il lago dei cigni il principe Siegfrid giura eterno amore a Odette, condizione perché la fanciulla, da cigno quale è stata trasformata dal perfido barone Rothbart, riprenda sembianze umane. Ma durante un ricevimento al castello il barone conduce sua figlia Odile, che assume le sembianze di Odette. Il principe, sedotto e ingannato, la chiede in sposa, rinnegando la promessa che avrebbe liberato l'amata.
Odette e Odile, il cigno bianco e il cigno nero, costituiscono l'arduo doppio ruolo che la protagonista del balletto più famoso della Storia deve ricoprire.

Dopo la nuca di Randy ‘The Ram’ Robinson (The Wrestler), in una sorta di film gemello, Darren Aronofsky pedina quella di un altro artista che ha dedicato la propria vita, il proprio corpo e la propria (doppia, con modello ‘Il sosia’ di Dostojevskij) identità ad un ruolo. Ancora una trama archetipica, con il racconto che inscena ‘Il lago dei Cigni’ anche fuori dal teatro: il cigno bianco è la “vergine” in esperienze di vita, senza carattere, sottomesso; il cigno nero è da ricomporre, scisso nella ricerca della parte oscura di sé e nell’amica Lily (o finta amica, arduo dirlo fra le allucinazioni); il principe è il regista…e così via. Con quest’opera, però, Aronofsky torna anche al suo cinema drogato, delirante e paranoico (Pi Greco su tutti): la “favola” dei cigni gemelli trova il suo doppelganger dietro le quinte, mentre le soggettive allucinate e polanskiane della protagonista confondono incubo e realtà; sprazzi di puro horror, dove il regista cita La Mosca nella scena in cui, allo specchio, Natalie Portman estrae qualcosa che le cresce sottopelle nella schiena o Perfect Blue, nella scena della vasca. Torna anche ai temi preferiti (L’Albero della Vita su tutti) in cui sonda, filosoficamente e con discipline “altre” (new age), i misteri della vita: tratta la necessità, nella ricerca della perfezione (e della felicità), di dare libero sfogo alla propria ombra, quella parte oscura che libera dall’alibi della tecnica (in senso esteso), quel meccanismo che abiura l’abbandono in nome di un perfezionismo che non mette in gioco se stessi, la propria animalità, abitando un ruolo stabilito da altri. L’ombra che, nella sua follia, permette l’apertura di nuove porte, tanto perigliose quanto meravigliose: una follia che la protagonista (Natalie Portman: 13 anni di danza classica, poche controfigure) controlla fino ad un certo punto, ambiguamente in bilico fra dannazione e dannato perfezionismo ma, infine, felice. Sul palco, in conclusione, Nina riesce ad essere terribile e seducente nella sua trasformazione, coadiuvata da effetti speciali e suoni subliminali (geniale la trovata di Clint Mansell che suona le note di Ciaikovskij al contrario, il lato oscuro della forza): allo stesso modo, anche l’opera di Aronofsky, con le sue schegge impazzite, evoca l’oscurità, il bosco buio, la caverna dell’inconscio. C’è anche Eva contro Eva e, soprattutto, il pathos di Scarpette Rosse (citato nella sequenza in cui la macchina da presa gira intorno a Nina che balla, nella figura dell’impresario dispotico, nel tema dell’Arte che uccide), fra sogno, favola, passione, delirio, dramma sulla scena come prolungamento della vita stessa, in cui tutto si può portare a compimento. L’importante è uscirne liberi, non vivi.