Drammatico

IL CAVALLO DI TORINO

Titolo OriginaleA torinói ló
NazioneUngheria, Francia, Svizzera, Germania, U.S.A.
Anno Produzione2011
Durata155'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

All’uscita dalla sua abitazione di Torino, il 3 gennaio 1889, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche vede un vetturino frustare il suo cavallo ostinato, che rifiuta di muoversi. Nietzsche rimane impressionato dalla violenza dell’uomo e dalla sua volontà di dominare il mondo. Si precipita a fermare il vetturino e singhiozzando abbraccia il cavallo. Il proseguimento del film si collega a questo aneddoto, chiedendosi quale possa essere stato il destino dell’animale.

RECENSIONI

Pochi giorni prima, la balena imbalsamata era dentro un container, e poteva essere guardata solo a pagamento. Ma adesso le pareti del container sono state abbattute, la balena è al centro della piazza, e per ammirarla una sconsolato signor Eszter non ha che da girarci intorno, senza dover pagare nulla.
Concludendo con questa scena le sue Armonie di Werckmeister, Béla Tarr aveva insomma chiarito già nel 2000 cosa fosse al centro della sua estetica: sovvertire l’arte contemporanea, e guardare al mondo per quell’installazione impermanente che ormai è automaticamente, senza alcun bisogno di sovrastrutture artistiche. Non uno sterminato cimitero in cui gli esseri si avviano a diventare cadaveri, come suggerirebbe una lettura troppo frettolosa dell’evidente pessimismo del regista ungherese, ma un museo a cielo aperto popolato da esseri momentaneamente immortali.
Una dozzina di anni dopo, Il cavallo di Torino non farà che portare all’estremo questa ipotesi. In un’antigenesi di sei giorni con tanto di anti-Bibbia letta dalla protagonista, il mondo viene de-creato e restituito all’oscurità, inghiottendo segnatamente, insieme a sua figlia, il carrettiere del cavallo abbracciato dall’anticristo Friedrich Nietzsche – cavallo attorno a cui nei primi minuti del film la cinepresa gironzola, osservandolo via via da diverse angolazioni come si fa in un museo davanti a una scultura, e soprattutto come Eszter stesso intorno alla balena “spiazzata”. E laddove la videoarte ci avrebbe mostrato questi sei giorni in un loop sempre uguale, a mo’ di parodia blasé dell’eterno ritorno, lasciando allo spettatore l’effimera e consolatoria libertà del consumo cosciente e delle redini della fruizione, ridotta alla decisione responsabile e indipendente di quando inserirsi nel flusso ripetitivo delle immagini e quanto a lungo, Tarr ci sottopone sei giornate quasi uguali da vedere rigorosamente in sequenza, perché man mano che l’oscurità cresce diventando, giorno dopo giorno, sempre più assoluta, qualcosa effettivamente cambia. Cambiano ad esempio di volta in volta, insieme a numerosi altri dettagli, le modalità formali e le angolazioni attraverso cui la cinepresa ci mostra atti quotidiani sempre uguali (vestirsi, cucinare…). Non si vede invece il momento del definitivo sprofondare nell’oscurità: non vediamo mai morire il padre e la figlia, e l’ultima immagine ce li mostra seduti immobili, illuminati da una luce completamente inspiegabile visto che il giorno prima qualsiasi fonte luminosa artificiale o naturale si è esaurita, facendo piombare il giorno di colpo nella notte in maniera ugualmente inspiegabile. Il settimo giorno di questa antigenesi, insomma, non c’è, perché la destinazione finale che dovrebbe essere la morte è dappertutto: tutto il tempo è incessante disgregazione. Fregandosene dei videoartistici andirivieni tra immediatezza dell’esperienza e distanza della coscienza spettatoriale, Tarr invita invece il nostro sguardo ad aderire alla spietata continuità del tempo esteriore-oggettivo, e non interior-soggettivo, che il cinema è in misura di riprodurre, fino a intravedere le discontinuità che si annidano in quella continuità, sovvertendola, come quando luce e buio sono là dove non dovrebbero esserci. Con i suoi pianisequenza e i suoi movimenti di macchina, Tarr fa insomma aderire il nostro sguardo a quella morte inesorabile che è il tempo fino al punto in cui essa uccide se stessa e fa rientrare l’immortalità dalla finestra sotto forma di forma, ovvero sotto forma non di trasfigurazione artistica dell’esistente, ma di semplice spazializzazione del tempo, di “lato B” dell’azione cinematografica attraverso cui il suo principio di successione temporale (il “prima questo, poi questo, poi quest’altro” in cui sembrano ingabbiate le vite dei protagonisti) si tramuta in relazione spaziale, nelle ragnatele filmiche già esplorate in Satantango in cui tutto si scopre legato con tutto.

È questa redenzione propriamente messianica del tempo, in cui l’immortalità si fa strada attraverso le discontinuità che si nascondono sotto l’apparente continuità di quella disgregazione inarrestabile che è il tempo mutandolo in spazio, che la figlia inconsapevolmente cerca guardando il vento che soffia al di là della finestra, nei rari momenti di tempo libero. Mentre l’umanità sua e del padre si riduce a mera animalità (i due non faranno che seguire un arco passivamente autodistruttivo che è il loro cavallo a tracciare per primo), nel vento che soffia di là dalla finestra lei scorge la possibilità di un punto di vista disumano: quello che giusto pochi anni dopo la follia di Nietzsche sarà appunto il cinema a incarnare, strumento che replica il tempo esteriore-oggettivo e proprio per questo può come nessun altro rivelare le discontinuità al cuore del tempo, una volta che affidiamo a lui il nostro sguardo. Nel suo riprodurre un movimento che vediamo senza che ci sia (all’opposto di quello del vento, che c’è ma non si vede), il cinema può rivelare le increspature e le irregolarità del movimento, e dunque del tempo, come nient’altro.
Più di un secolo dopo, Tarr rinnova questa promessa di redenzione al di là della presunta morte del cinema e del suo presunto riassorbimento in pratiche artistiche che, non volendo saperne di morire, non potranno mai avere accesso a quell’immortalità e a quella resurrezione che il cinema conobbe, e continua a conoscere, da quando Lumière stesso lo battezzò invenzione senza futuro. E ci ricorda che col cinema la morte, trionfando, viene a propria volta sconfitta: che esso ci invita cioè a cambiare la nostra prospettiva fino a considerare l’esistente non come subordinato a una catastrofe permanente dalla quale non può comunque sfuggire, ma di converso come una presenza concretamente in eccesso, un’obiezione tangibile “nonostante tutto” alla catastrofe permanente, e dunque come degno oggetto d’amore.
E non è forse il museo, ora sinonimo del mondo stesso, il luogo dove si colleziona amorevolmente ciò che ci sembra abbia sconfitto il tempo? Tarr in definitiva ci ricorda che se è rimasta un’ipotesi di comunità che possa rifondare un’umanità altrimenti condannata a coincidere con quell’animalità da cui provò titanicamente a staccarsi (sottotesto, questo, apparentemente ai margini de Il cavallo di Torino, ma in realtà cruciale), essa non potrà che muovere dal riconoscere noi, il nostro prossimo e il mondo stesso come accomunati da una medesima, museale, temporanea immortalità.