TRAMA
Un anno a Malpensa: quattro stagioni passate tra la burocrazia, le procedure, i controlli e i movimenti che ogni giorno si compiono all’interno di un aeroporto intercontinentale. Uno spazio pubblico dove convivono forze dell’ordine italiane e internazionali, ogni gesto è colto da una telecamera, ogni bagaglio indagato in tutti i suoi recessi nel tentativo di scongiurare un pericolo sconosciuto potenzialmente sempre in arrivo. Un luogo in cui la paura è l’unica cosa non di passaggio. (Dal catalogo del TFF)
RECENSIONI
Da intendersi in senso kafkiano, il titolo dello scabro documentario di Martina Parenti e Massimo d'Anolfi (già sceneggiatore di Angela) chiarisce da subito la prospettiva da cui si guarda la città aeroportuale di Malpensa, radiografandone i rituali manutentivo-polizieschi e i fitti gangli securitari, con le meccaniche di potere e controllo sociale a innervare un aeroporto strutturato a mo' di panopticon, retto da un assetto burocratico simil-carcerario che calpesta diritti e libertà di viaggiatori e passanti, specie se di etnia non caucasica. Tutto nel nome dell'ossessione securitaria, di recente rilanciata da quel codicillo della legge Maroni che a ogni aeroporto impone piccole celle apposite per controlli supplementari: vessazioni soi-disant regolamentari, eppure ben oltre l'abuso di potere. Senza spiegare o sovraccaricare le immagini, i due registi scandiscono per stagioni e fasi della giornata un anno a Malpensa, frantumandone il chirurgico "dietro le quinte" in ellissi e passaggi interstiziali, entro i quali si dibattono quadretti slegati e privi di commento, tanto assurdi quanto esemplari del sistema che li ha figliati. L'aeroporto, non-luogo per eccellenza della globalizzazione dei consumi, viene letto come microcosmo emblematico dell'assuefazione al terrore post-11/9, diorama concentrazionario d'interrogatori e intimidazioni xenofobe. Ma è solo un aspetto, il più amaro, di un film generoso di registri e sfumature, per quanto raffreddato dall'apparente abulia di sguardo, e mitigato, in parte, dal timore di (di)mostrare troppo. Perché l'osservazione silenziosa d'ispezioni e d'attese, di partenze e d'arrivi, lascia cantare le tante figure in un sommesso coro di gesti e routine del quotidiano, senza accorpare i toni ad un unico racconto, ma riflettendone i bagliori ora ironici ora drammatici, da trattenere in piani lunghi e discreti, ad alta fotogenia compositiva.
A tratti si affida persino a notazioni surreali e stranianti, complici la fotografia raggelata e il sound design umbratile, come nei frangenti in cui s'intravede il potenziale destabilizzante della natura, prontamente imbrigliata, sezionata o bersagliata dal personale dell'aeroporto (cfr. i test su tartarughe e aragoste ancora vive, o la lunga sequenza in cui si dà la caccia ai volatili colpevoli d'interferire con i voli, con gli addetti che sparano alla cieca verso il cielo, senza che i corpi cui mirano siano visibili - lampante metafora delle psicosi da 'guerra al terrore'), soffermandosi in più casi a sottolineare le geometrie di ambienti lividi e asettici, essi stessi sintomi d'un sistema paralizzato dalla propria paura, intrappolati in circuiti chiusi e sorvegliati da specchi e monitor. Ma tra le crepe del carcere aeroportuale si muove un corpo resistente, ignorato da telecamere, metal detector e altre strategie di controllo: una donna anziana vive nei meandri di Malpensa, cucinandosi con un fornelletto elettrico e facendosi la tinta nei bagni, come fosse a casa propria. Regina segreta del castello, abita - come il Victor Navorski di The Terminal - uno spazio altrimenti vuoto e provvisorio, nato per coadiuvare il consumo e accelerare il passaggio di merci e persone. Spezza così il tacito contratto di cui parlava Marc Augé, secondo il quale l'ingresso nel non-luogo impone la riduzione della persona allo stato di cliente, di fruitore, d'utente. Ed è il momento più intenso e sorprendente del film, il suo cuore poetico e politico: la donna s'insedia in un luogo altrimenti immolato al presente, dimensione di transito e d'oblio, arricchendolo di memorie (di vita) e riappropriandosene con creativa noncuranza. Il castello è espugnato: il non-luogo può farsi abitabile.
Vincitore del premio speciale della giuria come miglior documentario italiano, «per la capacità di catturare una realtà perlopiù inaccessibile, attraverso uno stile rigoroso e allo stesso tempo sempre coinvolgente».
