TRAMA
Ornate Brianza. Un cameriere in bicicletta viene travolto da un SUV che non si ferma a soccorrerlo. Intorno a questo delitto ci sono le storie di Dino Ossola, immobiliarista arricchito, di Giovanni Bernaschi, ricco finanziere. Di sua moglie Carla e dei figli delle due famiglie, Serena e Massimiliano.
RECENSIONI
Le lettere e le arti italiane fanno fatica a parlare di business. Si tratta di un difetto radicato, dovuto forse a certe velleità aristocratiche rispetto alle quali il commercio è un argomento volgare, o forse all’immancabile cultura cattolica per cui il profitto è una colpa. Il fastidio del canone culturale nostrano per i soldi e gli affari va di pari passo con una disgraziata gerarchia intellettuale, secondo cui l’aritmetica è roba da bottegai; la scienza è meno nobile delle lettere greche; l’economia è tecnica da venditore: robe troppo triviali, insomma, per l’educazione degli aristoi. Il risultato è limpido, non solo in politica, sui giornali e nelle tristi statistiche su diplomati e laureati italiani, ma anche nelle lettere e al cinema: in Italia nessuno (pochissimi) sa raccontare il presente. Che, piaccia o no, è fatto di commercio e capitali. Del resto all’estero piacciamo così: dediti ai piaceri aristocratici anche se non sappiamo come pagarli e non abbiamo uno straccio di idea su che senso costruirci intorno. E l’Italia vende, tra l’acclamazione degli stranieri, il buon cibo, i begli abiti, le cartoline paesistiche e La grande bellezza di Sorrentino. Ci comprano, ci premiano. Perché industriarsi allora a parlare d’altro? Ai bene educati piace il grande aforisma che schiaccia l’occhio al cafonal; al popolo piace il cafonal, punto e basta. E se si è davvero raffinati c’è sempre il dramma intimista. L’offerta culturale è servita.
I corollari di questo vizio sono parecchi. Uno tra questi è che l’Italia non sa raccontare i ricchi, salvo che in due forme corrotte: l’ozio raffinato e il Billionaire. Un altro corollario è che l’Italia non sa fare i thriller: del resto ogni buon thriller comincia con una valigetta piena di soldi o con un mistero; per raccontare il brivido dei soldi bisogna saper parlare di avidità senza falsi pudori, per raccontare un mistero bisogna saper prendere sul serio la realtà. Finisce, insomma, che esportiamo beni di lusso e importiamo dall’estero (dall’America, cioè) i racconti del presente. E nessuno sa più in che paese vive.
Con Il capitale umano, Paolo Virzì tenta una mossa assai coraggiosa. Partendo da un ottimo curriculum italianissimo s’avventura in territori nuovi, assai poco italiani. L’esplorazione era stata preannunciata col precedente Tutti i santi giorni, in cui Virzì provava in parte ad abbandonare i lidi sicuri della commedia all’italiana, su cui ha costruito una reputazione solida e meritatissima. Qui, però, decide di tagliare netto. Lo fa con un gesto simbolicamente significativo: affidandosi cioè a un soggetto d’importazione, il romanzo dell’americano Stephen Amidon, e adattandolo (per geografia e umori) alla ricca Lombardia. Anche la costruzione dell’intreccio è poco tradizionale. C’è un fattaccio, il cameriere ucciso da un SUV. E poi ci sono i punti di vista di tre personaggi, che ripartono dalla stessa mattinata per giungere alla sera fatale. C’è l’alta borghesia della finanza, ma con un retroterra antico (il finanziere di Amidon era new money, cioè aveva fatto i soldi da sé, mentre il Bernaschi di Virzì è già ricco di famiglia). C’è la borghesia parvenu ed esuberante dei traffici immobiliari. Ci sono fondi d’investimento e avvocati d’affari, scuole private e diciottenni in SUV. Ci sono i soldi, e i soldi muovono la storia: Bernaschi ci vive immerso, Ossola se li fa prestare, Carla li vuole per salvare il Politeama, gli investimenti sbagliati ne bruciano troppi, qualcuno è disposto a vendere gli affetti per guadagnarne.
A dispetto delle critiche pretestuose che sono venute da destra, Il capitale umano non “odia chi lavora” (intendendosi, nel gergo berlusconiano, gli imprenditori) né snobba il business. Anzi: Virzì tenta proprio di salvare il cinema italiano dalla pigrizia decadente e supponente di Jep Gambardella e dall’analfabetismo che gli autori italiani professano nei confronti dei rapporti sociali reali del XXI secolo. E lo fa come dovrebbe farlo chi prende sul serio la realtà e il lavoro: con grande professionalità. Solida regia, ottima fotografia, ottime prove d’attori, buona scrittura. Del resto, se si svolgesse con la stessa onestà il compito di spettatori ci si accorgerebbe che i ricchi di Virzì non sono così spregevoli. Anzi: molti sono animati da buone intenzioni, uno è eccessivamente duro ma moralmente corretto; solo uno di loro (quello che sembrava il più umano, il più... italiano) si rivela il più meschino. Il deserto umano s’intravede ma non è ‘sto gran deserto. Il veleno c’è, ma non è tanto diverso da quello che si trovava nella classe media e operaia di Roma o di Livorno.
La scommessa di Virzì perlopiù riesce, con qualche riserva. Alcuni personaggi convincono poco (il professore di Lo Cascio), alcuni suggeriscono una alienità di cui non ci viene detto abbastanza (Serena), altri si riducono a macchiette superflue (la riunione per discutere del teatro è la vecchia Commedia italiana che si vendica). Alcune interpretazioni sono notevoli (Gifuni, Bruni Tedeschi), altre interessanti (Golino), altre deboli (Guglielmo Pinelli che interpreta Massimiliano Bernaschi). Fabrizio Bentivoglio lascia un dubbio: è bravissimo, ma il suo Dino Ossola in certi momenti sembra uscito da un altro film (ma forse dipende dallo script). Il soggetto ahimè è un po’ scialbo: il thriller non è un thriller, l’avidità non è così avida, la ferocia non così feroce. Alla fine dei giochi, a ben vedere, Il capitale umano si sporca meritoriamente le mani con la realtà e coi soldi, ma non sa ancora benissimo che farne. È già però un gran passo verso la direzione giusta. Avanti così.
Dialettica di un titolo: la vita come motore, luogo di ancoraggio e misurazione degli effetti di una speculazione altrimenti invisibile; il capitale, come cruda e immediata quantificazione della vita (perduta), trasposizione in cifra persino delle possibilità di relazione e evoluzione che non si sono avverate.
Il film di Virzì si muove in questa doppia circolo di realtà e astrazione, facendo del primo cerchio materia animata, del secondo la cornice esterna, epilogo e suggestione iniziale. Protagonista, una speculazione aliena e familiare a un tempo, che sfrutta e disereda un’umanità di cui non ha nostalgia: anzi, la sua astrazione si regge sulla crisi della realtà ‘umana’ e diventa a sua volta virtualità che, se finisce, si trascina tutto dentro.
Bernaschi è il funzionario insofferente di questo sistema, figura senza riflesso, nient’altro: tutto è spiegabile, accettabile dentro quel meccanismo; tutto è insignificante fuori, al limite funzionale, mai degno di comprensione in sé.
Carla è incompiuta, invisibile: moglie e madre sempre in prova, interprete senz’anima e fuori parte, in una famiglia che è a sua volta economia di scambio, giustificazione per le debolezze, gioco delle scuse, sede di conversazioni convocate come riunioni. La sua presentazione (il giro in macchina con l’autista, l’equivalenza delle destinazioni), l’aria svanita la colloca a un passo dal nulla e da un’odiosa isteria (altre interpreti avrebbero caricato questo aspetto), ma le conserva una levità disperata, un senso di impotenza e smarrimento che lascia un appiglio all’incontro (si è parlato di mancanza di empatia nello sguardo su questo personaggio; in realtà, forse quello sguardo è il riflesso del punto di vista di Carla stessa, circondata dal vuoto e svuotata a un tempo). Se c’è dignità, risiede nella presa di coscienza che la sua non è una perdita colmabile, non è un debito che si può saldare. L’amante deluso l’accusa di far scontare ad altri la sua paura, e in questo ha ragione e ha torto, a un tempo, perché in realtà non c’è un prima da riportare in vita, o una libertà da conquistare. La libertà di Carla si trova solo a un altro livello di irrealtà: il teatro (guarda il caso) da rifondare, la scena in cui giocare di nuovo ad esserci, a prendere posizione, comprando la possibilità di riconoscersi e di volersi, provando a chiudere il cerchio di un matrimonio diventato prostituzione.
Quando però gli stessi meccanismi fluttuanti che le hanno concesso - per caso e per grazia pietosa - l’illusione di un progetto ‘suo’, cancellano questo miraggio, resta il silenzio, la recita patetica e estetizzata di una trasgressione che implora già l’assoluzione.
Il vero tradimento è nel bacio che le viene estorto da Dino, perdita finale che rivela e rileva una complicità coniugale rifondata sul disprezzo (per sé, ma prima per gli altri). Con quel bacio, Carla salva la disumana realtà della sua casa, la stessa che la rigidità del marito ha rischiato di distruggere, troppo convinto di saper distinguere chi sia o meno degno di fiducia (il figlio, Dino), troppo convinto che anche nella vita porti più profitto la scommessa sul titolo perdente. Alla fine lo sguardo sostenuto della moglie, i gesti retorici dei preparativi alla serata di festa, sicuri, non più tremanti, segnalano il suo distacco, presagio di un nuovo sprezzante cinismo: la dilettante diventa professionista, salva il teatro e se lo porta in casa.
Anche per questo Carla – il cui episodio non a caso è quello centrale – è forse più di tutte una figura di mediazione. Le figure femminili nei film di Virzì sono spesso ancelle più o meno volontarie, loro malgrado o a scapito altrui, di una transizione. Lo stesso onere è assunto a suo modo da Serena, lucida e impetuosa a un tempo, diversamente irrisolta, e da Roberta, assorta in una idealità che rende impenetrabile la persona più vicina, eppure ispira fiducia e le permette di accogliere e difendere, lei sola, un segreto. Attraverso di loro Virzì percorre un circolo che ascende i gradi di innocenza e impotenza fino a raggiungere Luca, e con lui toccare la morte e sfondare il cerchio, di nuovo, verso la cornice iniziale. In questo compito si fa probabilmente aiutare dal libro, e gli rende giustizia, quando decide di non fare del ragazzo la vittima sacrificale di un sistema ostile, ma il punto di incontro tra una ingenuità incauta e indifesa e una colpa reale, tangibile (l’incidente).
Su questo punto tutta la storia di solleva e si rovescia, mostrando il fondo buio di una dramma senza scarto che è la vera, immediata tragedia in cui l’innocenza totale coincide con la morte (il ciclista), e la vita, anche quella non vissuta, riceve un corrispettivo senza interessi. Il suo protagonista è l’unico personaggio che non ha avuto scelta, in un senso simile e infinitamente distante da quello con cui Giovanni si toglie dall’impiccio di giustificarsi con la moglie. Nella paura e nella forza autodistruttiva di Luca – altro estremo opposto e simmetrico alla fragile onnipotenza finanziaria - cova invece, con l’aspetto ‘simpatico’ di un bisogno di leggerezza (guidare la macchina di Massimiliano, vedere la casa ‘dei ricchi’), la stessa noncuranza con cui Dino investe quello che non ha per costruirsi un’identità fittizia, ma finalmente riconoscibile. Dino, specchio deforme della meschinità e della vigliaccheria, fa della verità una merce di scambio per pagare il suo debito, rientrare dalla perdita, sanare i conti e garantirsi un futuro, senza però rinunciare all’ambizione ridicola di un ulteriore guadagno sul suo stesso ricatto.
Esiste dunque una continuità dentro la cornice, resa bene dalla sovrapposizione episodica, per cui nessun gesto finisce in se stesso o incarna un senso ultimo, nessuna operazione finisce in pareggio. Questo scarto, questo ‘profitto’, nel bene e nel male, è quello sui cui si regge tutto. È lo stesso scarto in nome del quale Serena combatte la sua battaglia per (un sentimento autentico) e contro (la colpevolezza di Luca) la verità, insieme. È lo stesso scarto che permette a tutti, nessuno escluso, di creare opportunità per gli altri, colpevolmente e senza poterlo capire, insieme. Nello stesso meccanismo del caso e della volontà, della speculazione e dello scambio, della finzione e della realtà, si generano le orribili pose da aperitivo in terrazza e un incontro vero in una vera prigione, scommessa sull’amore che riscatta una morte quasi-reale (bella, rischiosa, sinceramente emozionante la scena dell’irruzione nell’appartamento di Luca).
Virzì riesce a raccontare tutto questo senza alcuna intenzione consolatoria, senza voler dimostrare teorie sull’emendazione dell’imperfetto, senza disporre un impianto accusatorio. Quello che più conta è che la sua fascinazione per il vissuto non è un risultato teorico, una rinuncia culturale in nome del compiaciuto relativismo per cui ‘niente è come sembra’; la sua non è neppure – almeno, non a priori - una scelta etica; è piuttosto la condizione per dare al pubblico un vissuto prima che uno sguardo, senza per questo rinnegare la possibilità e la necessità di un giudizio. Questo ‘radicamento lieve’ è la forza dei suoi film, la ragione per cui la telecamera, nei suoi primi piani sgranati, nei passaggi dai campi lunghi alla perdita di riferimenti, partecipa di tutto senza parteggiare, e confida nella capacità della storia di raccontarsi da sé. Nasce così anche quel sottile scarto dal prevedibile che accompagna lo spettatore dentro i personaggi, che suscita – raro privilegio – il sentimento commosso di una improvvisa e disarmante immedesimazione (non “io mi sento come lui/lei” ma, più universalmente, “lui/lei potrebbe essere me”) e allo stesso tempo prepara la distanza richiesta da una successiva valutazione e rielaborazione.
Il suo diventa il lavoro di un proiezionista scrupoloso e solidale con il pubblico che, avvicinando e allargando il quadro, dispone all’incontro con gli elementi, a volte inattesi, a volte familiari e se è abbastanza bravo riesce a mettere in luce quell’unico punto in cui speranza e disperazione trovano lo stesso appiglio. Se si parla spesso di un ‘amore’ di Virzì per i suo i personaggi, forse è perché questa luce non cala dall’alto o da un pertugio nascosto, ma si irradia da un semplice quanto misterioso ‘senso comune’. Lo ’scarto’ di questo film sta forse nello sguardo che, sulla spinta di nuove inquietudini, si rivolge turbato e preoccupato a un assoluto (la morte innocente, la pura speculazione) diventato opera umana eppure sempre fuori campo.
(un grazie a Franca per le sue osservazioni)
Paolo Virzì in nuovi territori cinematografici, con respiro internazionale, lontano dalla commedia amara all’italiana in cui eccelleva: prende a prestito un romanzo dello statunitense Stephen Amidon del 2004, ambientato nel Connecticut, e lo traduce in Brianza (a suo dire, luogo dove le vicissitudini economiche hanno un peso maggiore sulle vite delle persone), cambiando parecchie carte in tavola (approvate dallo scrittore) per privilegiare una struttura Rashomonica e Babelica, fino a dividere l’opera in capitoli. Sebbene già visitato in La Bella Vita, Virzì affronta il genere drammatico con occhiali nuovi, quelli dello straniero in terra straniera come Tempesta di Ghiaccio di Ang Lee, e il mood è centrato, citando nelle interviste anche Fargo, Il Falò delle Vanità, Signore e Signori e Chabrol (ma con poca evidenza, a riguardo, nel girato finale). Mantiene uno sguardo personale che trova i momenti migliori in sede di scrittura, di direzione delle recitazioni e costruzione dei personaggi, più che in una messinscena che sappia creare le atmosfere, esaltare i silenzi e le giuste pause. Il problema alberga proprio nella divisione in capitoli, alla ricerca di un sottotesto che non emerge con la forza che si vorrebbe e con i contenuti desiderati. Il primo dipinge un insopportabile arrivista in cerca di una scorciatoia per diventare ricco. Il secondo tratta il trauma (?) di una comparsa nelle vite altrui. Il terzo un amore giovanile. Quello finale vorrebbe chiudere le trame, con l’epigrafe che spiega il titolo (il capitale umano è un termine con cui le compagnie assicurative traducono in denaro il valore di una vita) e la rivisitazione delle stesse scene da punti di vista differenti, per rivelare quanto si può essere vittime delle apparenze. Ma, a conti fatti, poco e nulla lega i vari episodi, titolo compreso. Sono però intriganti le vicende (su tutte quella di Serena, con odori di rivalsa da ridistribuzione del reddito), alcuni aspetti del giallo (anche prevedibile), del ritratto dei personaggi, dell’ottima fattura da esportazione, del coraggio, in Italia, di realizzare qualcosa di differente.