TRAMA
La madre della giovane Fausta racconta, cantando, di come sia stata allattata con “il latte del dolore” perché nata durante il periodo più triste della recente storia peruviana. Dopo la morte della madre, Fausta cerca di organizzare un degno funerale, ma tutti i soldi della famiglia sono stati investiti nel matrimonio della cugina…_x000D_
RECENSIONI
La ferita della violenza perpetrata nei confronti del popolo andino (uomini e donne spesso senza identità e senza nome, e quindi facili vittime di crimini) e l’eredità sanguinosa del terrorismo, Fausta, figlia di quell’epoca travagliata (gli anni 80 peruviani), le porta letteralmente dentro di sé.
Cresciuta col latte di quel dolore (a questo fa riferimento il titolo originale), allevata nel terrore del maschio stupratore, la protagonista (la cantante Magaly Solier), tutta trincerata in se stessa, protegge la vagina e la sua stessa persona con una patata che le cresce dentro, diaframma infetto che la separa dal mondo esterno. E’ attorno a questo personaggio che la regista fa ruotare un film che se da un lato aderisce alle istanze della protagonista e al suo inquadramento in un contesto sostanzialmente veristico, dall’altro si avvale di un apparato visivo fastosamente congegnato e decisamente fantasioso: i protagonisti, in abbondanza di primi e primissimi piani di assoluto nitore, si staccano dai fondali in suggestiva sfocatura, i bei carrelli laterali srotolano i percorsi con grande raffinatezza, la densa gamma di colori rifulge nei frame, gli elementi scenografici nell’apparente casualità, risultano sempre studiatissimi nel disegnare il seducente quadro d’insieme. E’ in effetti sul versante prettamente compositivo che poggia l’impalcatura di un film che, in evidente debito alla tradizione letteraria, coniuga realismo e magia, fiaba e cruda realtà traducendo tale dualismo in una serie di immagini a doppia chiave, ora esplicitamente metaforiche, ora richiamanti un possibile simbolo per smentirlo all’istante: Fausta nel riflesso di un vetro, spettro del terrorismo, brandisce il trapano come un’arma; il letto con l’abito nuziale che, spostato, rivela il corpo materno come quello di una sposa cadavere; una buca scavata nel giardino, che pare tombale, è solo una dozzinale piscina; un corpo disteso a terra, che diremmo quello trapassato della madre, risulta semplicemente quello di un bimbo che gioca; l’arca che viene incrociata prelude al riavvicinamento del giardiniere Noè. Il simbolo, (esplicito fino all’esasperazione, solo possibile, negato, mostrato come ingenua didascalia) punteggia un’opera che convince soprattutto nella prima parte, quando la rappresentazione trova il migliore equilibrio tra complessità tragica delle situazioni rappresentate (o solo evocate) e un’ironia sottile (pensiamo al canto iniziale della madre: gli eventi descritti sono di un dolore devastante, ma la scena è concepita come un quadro a suo modo brillante) che ancora una volta pervade l’immagine e il modo di costruirla. Nell’ultima parte il film si sfalda, mette a nudo come un difetto l’artificialità della costruzione tematica e immaginativa, sbilanciandosi troppo sul piano della facile esplicazione (il baratto favolistico tra i canti e le perle), con un rischio di patinatura etno-chic non sempre evitato. Nonostante ciò la regista dimostra sempre una forte coscienza stilistica a metà strada tra l’espressionismo tutto al femminile (un mondo senza padri, in cui l’uomo è costantemente sullo sfondo, al suo massimo si manifesta come timido contrappunto) e l’esasperazione iconica della Jane Campion che fu e il tono contemplativo e austero di molto cinema orientale (che si irrigidisce, a tratti, in una solennità degna di miglior causa). Mentre la comunità delle favelas di Lima (che con le sue tradizioni, le sue superstizioni, il suo colore, costituisce un mondo a parte, una sorta di miniteatro strampalato in odor di Kusturica) è divisa tra la necessità di disfarsi di un passato pesante e quella di provare ad andare avanti (la traslazione del corpo della madre diventa un’impellenza, di fronte a un futuro matrimonio), il mondo degli ex coloni, ricco, accessoriato, tecnologico trova ancora il modo di depredare la popolazione indigena, fosse pure solo nella forma di un canto ancestrale da infiorettare e ridurre a languida sonata per pianoforte: proprio nel rapporto tra la protagonista e la padrona della villa in cui lavora, nei lunghi itinerari attraverso il labirinto della sua casa, l’autrice trova altri momenti felici (la conquista delle forbici per tagliare i germogli della patata al posto dell’unghia-artiglio fino a quel momento utilizzata allo scopo; la scoperta della speculare superstizione borghese – la bambola sotterrata rinvenuta dalla padrona -; il bellissimo piano sequenza che segue Fausta dal camerino al palco dove la padrona raccoglie l’immeritata ovazione) descrivendo con efficacia l’esperienza come definitivamente formativa, fino alla rimozione del trauma (e dunque l’addio al tubero).
Orso d’oro al Festival di Berlino 2009.
