TRAMA
Bruno, produttore in disarmo e marito in crisi, decide di aiutare la giovane Teresa a realizzare il suo primo lungometraggio: Il Caimano, ovvero la storia di Silvio Berlusconi.
RECENSIONI
Chi è il Caimano? Facile: Berlusconi. E chi è Berlusconi? Uno che rifiuta la realtà costruendone una nuova di zecca da rifilare al prossimo, uno che a domande precise risponde insultando l'interlocutore e cambiando argomento, uno che detesta chi non lo adora a sufficienza. Esattamente come Bruno, che vede nello script (appena sfogliato) di Teresa soprattutto un pretesto per rimandare il proprio fallimento professionale e chiude gli occhi sul disastro del proprio matrimonio, consumando una vendetta plateale quanto infantile. Il Caimano siamo tutti noi, o meglio, c’è un po’ di Caimano in ognuno di noi: anche per questo il personaggio è interpretato da tre attori, uno dei quali è lo stesso regista (che peraltro, in macchina con Teresa, non ascolta quello che gli dice la donna, preferendo canticchiare e straparlare à la Moretti). Ha ragione il produttore polacco (Jerzy Stuhr, praticamente nella parte di se stesso): il problema è l’Italietta che ama i sogni d’oro e odia il duro risveglio (la demolizione del set), non (solo) l’eroe a reti unificate capace di approfittare della situazione. Il finale è a questo proposito ancora più esplicito: il Caimano parla e si dilegua, sono gli altri ad agire per lui (un V per Vendetta al contrario, dunque).
Moretti gioca con il mondo del cinema (un magnifico cast per uno stuolo di piccole parti) e con i tasselli della composizione [la lavorazione del film di Teresa è intervallata dalle sequenze (volutamente sgangherate, anche troppo) delle opere scult prodotte da Bruno e dai frammenti della sceneggiatura, in cui si concentrano i momenti visivamente più rilevanti (la valigia misteriosa, il pavimento ricoperto di lettere)], ma il meccanismo tende a incepparsi: i ritratti privati suonano artefatti (i soliti bambini invariabilmente adorabili e naturalmente più maturi dei genitori, la coppia gay turbolenta ma affiatata cui si oppone lo sfascio della famiglia tradizionale), l’universo dei cinematografari è popolato da figurine spesso dimenticabili (una per tutte: il divo porcellone), la parentesi documentaristica (Berlusconi al Parlamento europeo) è superflua didascalia. Un film irrisolto, ma non da liquidare nel nome (o nel timore) di un pregiudizio.
[A caldo, caimano cotto e mangiato]
Esiste già a priori un quid di iniquamente escatologico, di subdolamente arrogante nel dire “l’ultimo film di Nanni Moretti” di cui tutti, nessuno escluso, dalla casalinga di Voghera al critico “laureato” (nell’accezione montaliana del termine) dei quotidiani-riviste-telelevisioni “devono” parlare, a prescindere dalla visione. È un’attesa costruita, studiata, imposta, sorvegliata, direzionata, fatta di posticce precognizioni, di boriosa ciarla intellettualsinistroide che ama gonfiare il suo ventre caimanico di significanti impazziti. Ilcaimano(di)nannimoretti, silvioberlusconi, elezionidelnoveaprileduemilasei. E intanto esce il prodotto morettiano (già “moretti”, “morettiano”, sono termini con aree semantiche ben demarcate essendovi contenuti significati come politica, antiberlusconismo, cinema-di-un-certo-livello, etc.), in un clima in cui inevitabilmente le parole - troppe parole (importanti o meno che siano) - vengono prima delle cose. E il film, nel suo essere meravigliosamente orrendo, è proprio un grande caimano che tutto fagocita, pensieri, parole, opinioni, atti, fatti, cinema e metacinema è tutto indistintamente introiettato, ruminato, ri-ruminato (chi l’ha detto che i rettili non ruminano?), metabolizzato e risputato in faccia alla serena idiozia supposta confusa, compiacente e compiaciuta dello spettatore. C’è una disperazione, un po’ reale e un po’ paraninfa, nel richiamare simbolicamente (dunque programmaticamente) alcune figure della morte (ma Moretti l’ha sempre fatto nei suoi film, da Io sono un autarchico a La stanza del figlio) che amano morettianamente transustanziarsi come figure della morte del cinema, per ritrasfigurarsi, a loro volta, come moralistico (ma non solo) decadimento della contemporaneità. Bruno Bonomo che al di là degli eccessi e dei recessi silviorlandeschi volutamente pantomimici è il teneramente terrificante uomo medio (che i francesi designano come Jacques Bonhomme, la cui mediocritas è mentale non sociale) che vive contemporaneamente diverse morti, tra pubblico e privato, quella dell’intimità sentimentale, della famiglia (…e un brivido ci percuote la schiena), quella ovviamente politica (ma qui da buon berlusconiano più che viverla la assiste) dell’italietta di un grande leviatano che negli ultimi trent’anni ha divorato sogni e soldi per restituirli nella forma della massificazione catodica, e quella del cinema, o meglio di un cinema ormai morto e sepolto nonostante le riesumazioni critico-popolari dei Sanguineti di turno ucciso da un cadavere, il cinema italiano attuale dei Muccino, Verdone (“è sempre il momento di fare una commedia”(?)), Virzì ma anche dei soliti placidi eroi della cinematografia nostrana, delle Buy e delle Trinca (lesbiche, non lesbiche, appassionate, carrieriste, stronzette dai rigurgiti femministi, mogliettine tradite, studentesse universitarie, commesse precarie, sante, puttane etc. etc.), un relitto che si annida negli anfratti peninsulari, come il bar(ac)cone che si aggira in Via Nomentana e dintorni; un cinema di-genere/de-genere che vede sublimemente la sua miglior messa a morte possibile (e Bruno Bonomo con esso) attraverso grandiose immagini di disfacimento, cinematograficamente orrorifiche, delle ruspe che demoliscono set e teatri di posa. Sembrerebbe davvero, come sostiene Marco Giusti, un film girato da Sergio Bergonzelli, o da Guido Zurli, per quanto è scombinato, apparentemente sgangherato, dissonante (anche nelle scorribande musicali da Piersanti alla malinconia ruffiana di Damien Rice), iperbolicamente farsesco (ridondante l’ancillarità delle grottesche immagini del repertorio berlusconiano) e ci piacerebbe accostare Il caimano a titoli di stupefacente rigogliosa improbabilità come Mocassini assassini, Violenza a Cosenza, Maciste contro Freud (Cataratte no perché troppo allusivamente metaforico, non ha purezza), ma c’è del metodo, c’è una volontà artatamente esemplare, come se dietro pellicole quali Nelle pieghe della carne o La missione del mandrillo ci fosse l’anima metalinguistica (le progressive sovrapposizioni del cinema sul cinema nel cinema, che comunque non dimenticano i disperati carrelli su Bruno Bonomo e l’agghiacciante fissità della m.d.p.che registra la dissoluzione del set-vita-Paese) di un Paolo Cavara o di un Nando Cicero o di un qualcuno che nella sua riconoscibilità veste i panni di qualcun altro (nella sua altrettale riconoscibilità, nonostante le metamorfosi uno-triniche) per annunciare apocalitticamente il già noto, ovvero la morte del senso dietro il vuoto, ricorrente, assordante paludamento significante.
Non crediamo di offenderlo, se qualifichiamo il regista di questo film come "intellettuale". Si dà il caso che un vezzo degli intellettuali sia quello di scambiare i propri fantasmi, le vanità, le idiosincrasie, per questioni nevralgiche e universali; in Aprile Moretti aveva già manifestato una certa confusione, parendogli che la vittoria del cosiddetto centrosinistra alle elezioni fosse una rivoluzione positiva per il paese come la nascita di un figlio lo era nella sua vita.
Negli anni successivi, quando il cosiddetto centrosinistra navigava a vista tra una politica economica cospicuamente destrorsa (schiava com'era del dogma monetarista), una certa dose di macelleria sociale, corporativismi assortiti, missioni di guerra in spregio alla Carta fondamentale e al diritto internazionale, abominevoli disegni di riforma costituzionale e generose ventate clericali, il regista abbandonò il cosiddetto impegno per dedicarsi a un melodramma famigliare ( La Stanza del Figlio) fasullo e disonesto come un sorriso del Caimano, inerte, ricattatorio e lacrimevole.
Oggi l'impegnato si risveglia, e temendo per le sorti della nazione ci dà dentro con l'invettiva, lo sghignazzo e il lamento; è noto come il talento satirico e l'estro del moralista si nutrano di rabbia, ma non debbano risolversi in essa: altrimenti il livore annoia, perché la rabbia è mera retorica, neppure delle più squisite. Non parliamo poi dell'eterno lagno di chi ritiene che l'Italia tutta e i suoi dirigenti politici siano immeritevoli del proprio intelletto et buon gusto; di chi ha come massimo timore le brutte figure internazionali a cui ci espone imperterrito e stolido il Cavalier Banana; di chi non si dà la pena di comprendere o almeno di descrivere, preferendo esprimere altezzosa ripugnanza: atteggiamento gratificante per l'amor proprio, ma per nulla analitico e solo apparentemente critico.
Nel film vagolano tre direttrici, e a ciascuna compete un distinto registro espressivo (tutti convergendo nel personaggio interpretato, bene, da Orlando): il dramma famigliare, il quadro sociologico, il pamphlet politico.
Nel primo si alternano siparietti con i bambini (immancabili, odiosi marmocchi) e scene di crisi coniugali di esasperante banalità, con una tendenza all'isteria, alla sceneggiata e all'autocommiserazione che iscrive Moretti a epigono del muccinismo; anzi, in questo purè espressivo non sai più distinguere: Moretti sembra Muccino e Muccino sembra Moretti (o Faenza, o Comencini), le famiglie visualizzate dagli uni sono il calco o la matrice di quelle rappresentate dagli altri, e tutte fanno parte del medesimo museo delle cere strillacchianti o piangenti.
È sconfortante la concezione primitiva (e al tempo stesso riciclata) che del dramma famigliare ha Moretti. Ma addirittura scandaloso è lo sguardo miope che il regista pretende di lanciare sul cambiamento sociale (a meno che egli non abbia solo voluto insaporire la vicenda con una serie di scenette): il querulo ed evasivo stupore e il momentaneo rifiuto emotivo del protagonista di fronte a realtà come "lesbismo" o "inseminazione artificiale" lasciano di sale, sembrano usciti da uno sketch di Zelig o perfino del Bagaglino (tette e parolacce a parte): in questo clone di caricaturale compressina per compiacere il pubblico di prima o seconda serata sarebbe la rappresentazione scultorea ed epocale della merdea mediocritas? Siamo stupefatti. Vuoi mettere la davvero calzante raffigurazione, offerta non già dal vergognoso e bigotto immaginario del regista (complementare al perbenismo guardone di Bertolucci), bensì dal realissimo e italianissimo "meglio fasci che froci!" di una Mussolini mai così autobiografia della nazione come oggi!
Ancor più stupefatti restiamo di fronte all'altro campione morettiano dell'homo berlusconiensis: l'attore arricchito e ignorante, supponente e sporcaccione, reso dal bravissimo Michele Placido. Dunque, costui sarebbe il prodotto dell'ultraventennale rincoglionimento perseguito dal biscionesco dominio mediatico: l'incarnazione dell'Italia così come contaminata dal berlusconismo. Ma stiamo scherzando?
Si può legittimamente pensare che B. sia il demiurgo di un degrado terribile della nazione, e al tempo stesso l'incarnazione archetipica di quel degrado, della mancanza di etica pubblica (per non dire dell'elementare civismo) che ci affligge, della concezione premoderna delle istituzioni che ci caratterizza, del familismo amorale, predatorio e servile che ci qualifica, del disvelamento demagogico delle forme democratiche di cui il nostro paese è permanente laboratorio (Populismo e democrazia di Meny e Surel sembra scritto avendo davanti l'Italia). Ma tutto questo che c'entra con la trivialità dei nuovi ricchi - altro annoso lamento degli intellettuali, tanto che un autore ben altrimenti consapevole come Fellini ne fu così condizionato da rovesciare nel Satyricon lo scanzonato e curioso spirito petroniano in una funerea esposizione di orrori - esplicitamente abbinata dal regista al condizionamento operato dalle televisioni? Quanto al sesso telefonico praticato dal personaggio interpretato da Placido, sarebbe espressione di semplice maleducazione verso gli ospiti costretti ad ascoltarne i gemiti orgasmici, o addirittura il segno di una corruzione morale, come un tempo sarebbe stato il segno della viziosa decadenza borghese? No comment.
È indicativo che nel film si racconti la sceneggiatura di un film che racconta fatti veri: involontaria confessione d'impotenza a leggere il reale con occhi diversi da quelli della cronaca. E infatti, cronaca per cronaca, le scene in cui B. è interpretato da Elio De Capitani (bravo, peraltro, scevro da eccessi caricaturali) cedono il passo agli inserti televisivi in cui protagonista è B. in persona: infatti, il truce e tragicomico Cavaliere è in se stesso una forma di rappresentazione del male italiano. Occorrerebbe attingere un secondo livello di lettura, di trasposizione metaforica, oppure compiere un'onesta rievocazione storica (insomma, Un Borghese Piccolo Piccolo o Il Delitto Matteotti), per riuscire più convincenti, e puntualmente il film acquista una sua forza cupa e sinistra quando il ruolo di B. viene interpretato da Moretti: abbandonata ogni pretesa di somiglianza fisica, via i sorrisi da Omino di burro (secondo la storica definizione di Beniamino Placido), via i capelli tinti e l'accento brianzolo. Il regista si produce in una rielaborazione sintetica del Caimano, evidenziandone con un colpo di frusta la natura occultata dal sorriso e dal cerone. Cinque, sei minuti di film che incutono paura, proprio perché l'intensa e stratificata minaccia del personaggio è per un attimo resa, con semplice efficacia, attraverso una finzione narrativa.
C'è nel Caimano una battuta rivelatrice: "Sapete parlare solo di B. e della TV". Ebbene, osserviamo questo film inetto a descrivere una società - se non attraverso la desolante piattezza di una sfilza di luoghi comuni. Chi ci rende l'autore di Bianca e de La Messa è finita? - e fagocitato dalla figura di B.: incentrare il discorso sulla sua assoluta eccezionalità è stato un errore di prospettiva in difetto (perché non ne ha raccontato che in parte e solo casualmente la catastrofica pericolosità) e in eccesso, in quanto tradisce una sorta di perverso culto della personalità che impedisce di innalzare lo sguardo al di sopra dello schermo irradiato dalle antenne dell'uomo di Arcore, per guardare sul serio non soltanto alle macerie che il suo passaggio lascerà, ma al ventre collettivo che ne partorì il trionfo, eleggendolo - in tutti i sensi - a propria espressione piuccheperfetta.
…la poetica del dettaglio, del particolare come unica risposta estetica, eidetica e morale “differenziale” all’imbarbarimento culturale che stiamo scontando e vivendo…
…la non risoluzione degli enigmi “irrisolvibili” quale non-risposta ad una domanda legittima a cui, tuttavia, solo superficialmente è possibile rispondere…
…la ridefinizione dei limiti nella/della rappresentazione del “mostruoso”, dell’abnorme. Unica strategia adottabile: lo smascheramento, la demistificazione. [Moretti sceglie di restituire tutte le “qualità” polimorfiche ad un mostruoso al quale forse ci eravamo assuefatti. L’assuefazione comporta una progressiva indifferenza, non una rimozione, dell’anomalia, che al contrario permane e finisce col pervadere la nostra esistenza, col rendere nebulosi ed incerti i nostri rapporti con l’altro, mettendo in crisi la nostra capacità di interrogare il reale, di rappresentarlo senza ripiegare o fuggire in un mostruoso “bigger than reality” (l’horror-trash), alla fine rassicurante perché partorito e governato dalla nostra fantasia, un liberatorio ed onanistico esorcismo “di genere” delle nostre paure…
…a proposito, mi sovviene un passo di Bauman: «con la caduta dell’opposizione tra realtà e simulazione, tra l’essenza della cosa e la sua rappresentazione, in un certo senso si cancellano e si attenuano anche le differenze tra la norma e l’anomalia, tra ciò che è conforme alle aspettative e l’imprevisto, tra il fenomeno ordinario e quello eccentrico, tra il domestico e il selvaggio» (Il disagio della postmodernità, pag. 31)].
… ultimi minuti… il Nostro irrappresentabile si toglie la maschera di cerone, non ride più e non fa più ridere perché mai avrebbe dovuto far ridere (ci sarà sempre bisogno di una commedia, a patto che non umanizzi ciò che umano non è o non può più essere – ma la vera commedia non ha mai fatto questo, anzi…): il già detto (tutti i topoi “argomentativi” del CavalierCaimano contro i “cumunisti” panacee di tutti i mali), le parole udite mille volte nel corso degli anni, riacquisiscono la significanza loro propria, non più gridate da un oratore sorridente che dice di amare il proprio paese che già crediamo/credevamo di conoscere, ma proferite dalla proiezione/simulacro di un Berlusconi finalmente “personaggio”. Ciò fa gelare il sangue, producendo nello spettatore lo stesso strano sentimento descritto da Freud nel suo saggio sull’Unheimlich. Come se vedessimo, ci confrontassimo e finalmente (ri)conoscessimo per la prima volta il “patrigno” (a)morale della generazione anni ’80, come se avessimo la non piacevole sensazione che non presto “smetteremo” di essere suoi figli e che, al contrario, molti sono già pronti a gettare molotov per salvare il caro e amato padre che tanto ha fatto per il nostro bene, per (dis)educarci, per farci crescere robusti e dementi…
…l’orrore nel familiare, la presunzione tutta italiana di aver già visto e vissuto tutto, di aver toccato il fondo non accorgendosi che continuare a raschiare significa cominciare a scavare la propria fossa. Senza mausoleo, patetiche vestigia del presente….