TRAMA
Tre amici di origine ucraina, operai in un’acciaieria della Pennsylvania, partono per il Vietnam dopo aver festeggiato il matrimonio di uno di loro. Catturati dai Vietcong, subiscono la tortura della roulette russa…
RECENSIONI
Ragionare su Il Cacciatore vuol dire riflettere sul cinema della New Hollywood, interrogarsi sulla guerra ed in particolare sul conflitto asiatico in Vietnam, ma significa anche entrare in profondità nella natura intima della cultura americana. Inquadrare il binomio Il cacciatore/Apocalypse Now è un processo ineludibile: i due film, separati soltanto da un anno, sono due facce della stessa medaglia, il documento finale con il quale l’America, attraverso gli autori della Nuova Hollywood, ragiona sulla sconfitta in Vietnam e tutte le sue attinenze ed emanazioni. Nulla è più significativo dei due film di Cimino e Coppola, nulla poteva essere emotivamente più forte, artisticamente più intenso di queste opere di due autori formatisi con la consapevolezza del ruolo politico ed artistico del cinema in un periodo in cui la guerra in Vietnam era il primo dei titoli sui giornali. Il cinema hollywoodiano nel corso dell’intera sua storia ha sempre tentato di tener fuori la storia presente dalle opere in produzione, ha sempre percorso la strada dell’intrattenimento più che della consapevole riflessione sul presente, ma ciò che succede con questa guerra ha dell’incredibile: Hollywood non tocca il Vietnam, la televisione entra tutte le sere nelle case delle famiglie americane con immagini della guerra, ma Hollywood ne parlerà soltanto a conflitto ultimato. Un solo film fa eccezione ed è Berretti verdi di John Wayne, ma si tratta esplicitamente di un film di propaganda.
Sicuramente le opere di Cimino e Coppola sono quelle che, anche per via della loro durata che mira a rasentare l’epopea, danno l’impressione di dire l’ultima parola sulla guerra in Vietnam. Apocalypse Now, raccogliendo con un libero adattamento il cuore – di tenebra, appunto – del romanzo di Conrad, mette in scena l’orrore della guerra, catalizzando nel faccia a faccia Willard/Kurtz l’America stravolta e sfigurata dall’orrore. Il cacciatore completa il quadro essendo tutto ciò che il film di Coppola lascia da parte – o lascerà da parte, dato che lo succederà di un anno – raccontando l’impossibilità di comunicare l’esperienza bellica perché incomprensibile per chi non l’ha vissuta e incomunicabile per i reduci. È questo il presupposto da cui parte l’immenso affresco di Michael Cimino, scegliendo allora di guardare alle proprie spalle, tornare a porre i riflettori sugli Stati Uniti, nelle proprie case, con l’obiettivo di cogliere la guerra in Vietnam sul suolo americano, indagando i comportamenti del fronte interno e l’elaborazione del lutto di una società sconfitta. Cimino ne approfitta così per parlare di questioni insite nella cultura americana, problemi fondativi di un popolo, di una nazione, che emergono in un momento di particolare difficoltà.
Innanzitutto, nel suo tessere una complessa ed elaborata ragnatela drammaturgica, Il cacciatore ci offre dei protagonisti che si prestano perfettamente al discorso sull’America e sull’uomo americano che intende fare il regista: i tre (anti)eroi, non sono w.a.s.p. (White Anglo-Saxon Protestant), sono figli di immigrati, cittadini americani impuri, nuovi cittadini, operai di fabbrica che trovano nel loro sentirsi americani una delle principali ragioni di vita. Il loro impegno bellico viene anche, e forse soprattutto, dal desiderio di tre operai di origine est-europea di essere utili al paese che li ospita, in modo da prendere la patente di veri americani. Questa si rivelerà la loro rovina ed in particolare per Michael e Nick sarà un trauma profondo e lacerante. Sarà anche l’occasione per Cimino per ragionare allegoricamente attraverso i suoi personaggi su un’America sconfitta e sofferente, che viene punita dalla propria ideologia (emblematica, oltre che estremamente potente, è la logica del “colpo solo” con la quale Michael va a caccia del cervo, ma che diventerà la logica di Nick alla roulette russa), che perde la sua purezza e le si ritorce contro mostrandole, come in uno specchio deformato, il lato oscuro di se stessa. Nonostante tutto, Cimino realizza un finale per molti ambiguo, un epilogo allegorico e commovente, con le note e le parole di God Bless America cantate dai sopravvissuti che esprimono il vitalismo inestinguibile di una nazione, la quale, in ogni situazione, non nasconde mai quell’intimo desiderio di speranza e rigenerazione che la contraddistingue.