TRAMA
Funzionario governativo incaricato di sorvegliare pregiudicati per reati sessuali, Erroll Babbage (Richard Gere) si fa coinvolgere eccessivamente dalle indagini e finisce per essere spedito in pensione dai superiori. A rimpiazzarlo è la giovane e inesperta Allison Lowry (Claire Danes), costretta a diciotto giorni di affiancamento col collega prossimo al pensionamento, che nella sua ultima missione sta cercando ossessivamente i responsabili del rapimento della diciassettenne Harriet Wells (Kristina Sisco). L’indagine di Babbage, condotta con metodi rigorosamente irregolari, trascinerà entrambi nell’underworld della pornografia e delle perversioni sessuali.
RECENSIONI
Capace di trilogie formidabili (Infernal Affairs) come di tridimensionali vaccate (The Park), dal signor Andrew Lau c’è da aspettarsi di tutto, anche che vada a girare un film negli Stati Uniti con Richard Gere, Claire Danes e Avril Lavigne con un incisivo scheggiato. Che c’entra l’odontoiatria, direte voi? C’entra, c’entra, fidatevi. Come peraltro, sempre a giudizio del vostro simpaticissimo recensore, c’entra André Bazin. Del resto il titolo originale di Identikit di un delitto (ah ah ah!) è The Flock (traducibile come “Il gregge”, “Il branco” et similia), sicché c’è spazio un po’ per tutti, anche per il fondatore dei prestigiosi «Cahiers du cinéma»: “Diciamo che il «sur-western» è un western che si vergognerebbe di non essere che se stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico…, insomma, con qualche valore estrinseco al genere e che si suppone lo arricchisca”. Ora, è incontrovertibile che Identikit di un delitto (ah ah ah!) non sia un western, ma è sufficiente commutare il genere dei cappelloni con quello dei distintivi e il prefisso può restare. Già, perché The Flock è un «sur-poliziesco», nel senso che è un poliziesco intellettualmente sovradimensionato e visivamente survoltato. Che cosa significa? Che chi ha scritto la sceneggiatura (Craig Mitchell e Hans Bauer per la precisione) non si è fidato della capacità intrinseca del genere di comunicare l’ambiguità necessaria e si è sforzato di creare dei personaggi e delle situazioni che la oggettivassero in maniera esemplare. Risultato? Al posto del solito duo di poliziotti (matricola/veterano) troviamo una coppia di funzionari governativi (l’uscente e la subentrante) che sono in parte psicologi in parte detective e che rimangono invischiati in un’indagine in cui vizi privati e pubbliche virtù si contrappongono sistematicamente. Ogni situazione è buona per far enunciare dal brutale e paranoide Babbage (un Richard Gere intrappolato nel ruolo) alla nuova arrivata Allison Lowry (Claire Danes, piuttosto incolore) che niente è come sembra e che l’ingenuità è un peccato mortale. La costante sottolineatura dei dilemmi morali e psicologici dei protagonisti finisce per fagocitare l’intreccio, che perde progressivamente forza, importanza ed efficacia: personaggi che si danno precipitosamente alla fuga (in tal modo accusandosi), rivelazioni che giungono con evitabile gratuità (perché spiattellare inopinatamente gli artefici del rapimento?), eventi che si susseguono con saltellante disinvoltura (difficile credere al crescendo parasuicida di Babbage). Insomma, da metà film in poi la componente “intellettuale” (virgolette di prudenza) si divora quella narrativa, denunciando più che la vergogna di cui parlava Bazin una sostanziale sfiducia nel potenziale di ambiguità racchiuso nel genere. E allora via con mani di enfasi ambiguante a dare “spessore filosofico” (virgolette di disprezzo per l’espressione) al copione, finendo per svigorirne la tenuta drammatica e l’intensità conflittuale (questa sì davvero ambivalente). Lo stesso dicasi per il versante visivo: parzialmente rigirato da Niels Mueller (The Assassination of Richard Nixon), The Flock non ha niente della sfarzosa ariosità dei tre Infernal Affairs, esibendo al contrario una regia eterogenea e frastornante, scombussolata da un’instabile camera a mano, agganciata allo sguardo di Babbage da oscillanti soggettive e incorniciata da vibranti step-framing (l’incipit e il redde rationem). Se a tali soluzioni palesemente virtuosistiche si aggiungono i riferimenti alle foto-bondage di Nobuyoshi Araki e alle mutilazioni fotografiche di Joel Peter Witkin, l’arricchimento estrinseco di cui parlava Bazin coinvolge il film nella sua globalità, tanto dal punto di vista concettuale quanto da quello estetico, consegnandoci una pellicola che in questa eccedenza ostentata presenta comunque il maggior (e non totalmente disprezzabile) motivo di interesse. Insieme alla prova di KaDee Strickland nei panni della tassativamente ambigua Viola Frye e alla sola presenza di Ray “the frontman” Wise. Il diavolo probabilmente.