TRAMA
Antoine, ingegnere francese, giunge a Tangeri per dirigere i lavori di costruzione di un centro multimediale. Ha accettato questo lavoro perché sa che Cécile, un vecchio amore mai dimenticato, vive lì col marito marocchino…
RECENSIONI
Il destino di un pugno di personaggi si appresta a cambiare: laddove le loro vite sembrano vincolate da lacci e lacciuoli, limiti di natura diversa (il lavoro, la carriera, la famiglia, l’amore), questi si rivelano in definitiva tutti apparenti, si dissolvono presto e il mutamento delle condizioni, in un periodo di cambiamenti ben più radicali che investono il mondo, avverrà con naturalezza disarmante. In un Marocco al bivio due culture si intrecciano o si distanziano a seconda dei casi (Antoine, francese, è disposto a servirsi della stregoneria locale per riconquistare Cécile e curare il suo malessere interiore; Samy, mezzo sangue, si guarda bene dal farsi cauterizzare, con un metodo empirico, la ferita provocata dal morso di un cane), si guardano con sospetto, mettono in gioco l’intimo o si respingono con freddezza.
Téchiné muove le fila di queste storie con impassibilità a tratti glaciale; la mobilissima camera a mano batte forse troppe strade e sembra non (voler) intaccare la patina iconica dei due attori principali; i disagi amorosi e familiari si ingarbugliano ma suonano sempre come meri inconvenienti tanto che alla fine la corte estenuante di un vecchio amore, un figlio che persevera nel suo disorientato stile di vita, l’abbandono di un marito, si affrontano con qualche lamentela, chiacchiere incrociate, al massimo un battibecco, subito sedato. E l’uscita dal coma del vecchio amante ritrovato verrà accolta da un sorriso sereno e un leggero incrociarsi di dita. I tempi cambiano e con essi le vite delle persone: è sempre avvenuto, perché stupirsene?
Antoine arriva a Tangeri per ritrovare Cécile, ma lei non vuole riprendere una storia finita trent’anni prima: questa Odissea (Cécile legge a Saïd la storia di Eolo) in salsa agrodolce riscatta la delusione di LOIN. Come sempre sospeso tra Europa e Africa, il regista esplora le pieghe del desiderio e il destino dell’essere umano, irrimediabilmente solo di fronte al dolore e alla morte. Gli ingredienti sono quelli del melodramma classico (l’amore a senso unico lungo una vita, le inconciliabili ragioni del cuore, il ventaglio degli affetti familiari in tutto il suo infranto splendore) ma il profilo ellittico e allusivo del racconto (malgrado dialoghi a volte sbrigativamente esplicativi), la delicata descrizione dei personaggi (prigionieri delle proprie manie, cupi, sfuggenti, profondamente umani), la quiete visionaria di molti frammenti (l’incidente che apre il film, i cani, le astratte impressioni del cantiere) sono finalmente all’altezza dell’autore de LES ROSEAUX SAUVAGES. Téchiné riesce a schivare ogni consolatoria risoluzione dei conflitti (amorosi, razziali, economici), limitandosi a constatare le difficoltà del percorso a ostacoli (anche invisibili, le barriere ci possono ferire, se non distruggere) e accennando, nel limpido finale, a un’occasione di rinascita, che non può derivare che da una tabula rasa (la foto bruciata, estremo esorcismo). I divi Deneuve e Depardieu mettono la sordina e offrono un’interpretazione di ammaliante secchezza, ma meglio di loro fa il giovane Malik Zidi, alle prese (dopo GOCCE D’ACQUA SU PIETRE ROVENTI) con un’altra (in)colpevole vittima dell’amore.
Téchiné usa affidare alla parola la definizione dei personaggi che popolano le sue gallerie. Più che di galleria, qui si deve parlare di passerella: una sceneggiatura più incerta rispetto al molto interessante Loin – di cui condivide temi e topoi: la balbuzie sentimentale, la conflittuale curiosità fra culture, l’irrequietezza rivelata dal migrare inesausto tra confidenti e continenti, il vicolo cieco in cui ci si caccia per sfuggire all’impasse della propria vita – spinge spesso i dialoghi in un territorio infido: quello dell’acuta intelligenza che, per voler troppo scavare, attinge nient’altro che la banalità d’autore; solo di rado sublime, e lontanissima dalla naturalezza con cui veniva scolpita, nell’indiscusso capolavoro dell’autore (Les roseaux sauvages), una bruciante verità esistenziale. I tipi umani dialoganti cui il regista è affezionato si rincorrono di film in film; ma quando il loro spessore è azzerato, ne viene deformato anche il profilo: della loro insoddisfazione, della difficoltà a dirigere i propri giorni, della nervosa inerzia da cui si lasciano cullare resta solo una grigia sgradevolezza che li investe in varia misura. Sarebbe certo improprio valutare un film sulla scorta del giudizio morale sui personaggi, ma in Les Temps qui changent il problema è che essi sono troppo sfocati o pallidi – soprattutto quelli dei giovani – perché l’arroganza o il disagio o l’impulsività o l’immaturità possano assurgere a cifra espressiva. Né aiutano le star: su uno scenario che è puro décor turistico-esotico (triste novità, nello stile di Téchiné), la faccia suonata di Depardieu e quella perennemente schifata della Deneuve si muovono alla vana ricerca di una necessità drammatica per le rispettive ansie. All’attivo del film rimangono qualche battuta brillante o feroce, l’antica asciuttezza narrativa, lo sguardo tagliente della m.d.p. sui protagonisti, la confermata simpatia per la fierezza degli autoctoni marocchini e la loro capacità di mordere la vita, la non celata derisione per la mentalità colonialista e snob degli occidentali liberali. Una provocazione condotta a freddo, quest’ultima, ma pur sempre benvenuta.