TRAMA
Nell’occasione dei funerali della morte di Togliatti, avvenuta nell’Agosto del 1964, alcuni personaggi si ritrovano a Roma per dare l’ultimo saluto al segretario del Partito Comunista Italiano.
RECENSIONI
Sovversivi segna, tra tante cose, la fine di un sodalizio professionale (ma non certo spirituale) intercorso trai Taviani e Valentino Orsini che durava fin dai tempi delle prime esperienze documentaristiche degli anni ’50. Passione, ideologia e urgenze espressive dettate da un sentimento politico condiviso rimarranno invariabilmente il denominatore comune dei tre cineasti, ma i modi dell’espressione prenderanno direzioni profondamente e irreversibilmente differenti: tanto legati a forme riconoscibilmente neo-realiste Orsini (I dannati della terra) quanto inclini a nuove sperimentazioni linguistiche oltre il realismo i fratelli Taviani. Il film, che ha un movimento narrativo piuttosto scomposto e frammentato il quale ricorda l’episodicità dell’opera precedente, I fuorilegge del matrimonio, mostra una struttura scopertamente dialettica tra due tendenze contrapposte determinate da un’energia centrifuga da un lato (i personaggi con le loro variegate esistenze) e da una forza potentemente centripeta dall’altro (la morte di Togliatti). I frammenti (soprattutto diegetici, come si è detto) di vita delle varie figure, frantumati da un’assenza imponente e ingombrante che diviene metonimicamente un vuoto ideologico-politico sono raccolti dall’evento funereo che catalizza su di sé tutto il senso filmico fungendo da unità semantica del molteplice rappresentato. Il lutto, come morte di un padre, anzi del padre, è un momento storico che va elaborato e superato poiché coincide con il tempo della crisi non solo, oggettivamente, di un’epoca ma anche e soprattutto delle esistenze individuali dei personaggi della mise en scène. L’elemento chiave di questa elaborazione, sul quale si focalizza l’attenzione di Paolo e Vittorio Taviani, è quello della sovversione (è proprio da Sovversivi che matura nei registi di San Miniato la consapevolezza di una sorta di poetica dell’esagerazione, del gesto estremo che riconosce spezzandolo il torpore della realtà così com’è per sovvertirla), per cui il racconto di queste individualità si sofferma convulsamente sui frangenti di più acuta lacerazione interiore generata dal proprio non riconoscersi all’interno degli schemi preordinati che ne sclerotizzano l’esistere e il suo (non) senso. Ermanno (un Lucio Dalla impagabile tutto corpo e sguardi di allucinata incertezza, che i Taviani avevano conosciuto prima di diventare il cantautore che è, adoperando la sua fisicità per alcuni caroselli) deambula insicuro e perplesso sull’abisso delle scelte professionali proprio quando, una volta laureato, ha la strada spianata per una carriera da insegnante (è forse la figura psicanalitica più interessante e complessa, quella che a morte avvenuta ha bisogno comunque di proclamare l’esigenza di un parricidio profferendo davanti alla bara di Togliatti un quasi blasfemo “Era ora!”), Ettore è lo straniero in terra straniera che coglie tutti i fermenti di un irrequietudine ideologica a livello meta-nazionale ma si rende conto che sono le sue radici geopolitiche a pretendere l’atto rivoluzionario (finanche violento), e dunque torna in Venezuela, Sebastiano e Giulia non sono la solita stanca coppia in crisi poiché quest’ultima finalmente riesce a manifestare (prima di tutto a se stessa) la natura più autentica del suo desiderare, il suo orientamento (omo)sessuale come una liberazione psicologica ed esistenziale, di fronte a un marito tutto chiuso nel suo provincialismo da funzionario di partito, fedele alla linea, che maschera l’indicibile (l’inaudibile) con una nevrosi da iper-razionalismo e infine Sebastiano, regista cinematografico malato di tumore (sopraffina struttura abissale esibita dal film in questo caso), che si sdoppia nel suo alter ego Leonardo da Vinci (protagonista della pellicola che sta girando), per cercare forse come il grande genio negli ultimi anni della sua vita, non più il senso dell’arte, bensì quello dell’esistenza, non più il furore solipsistico dell’espressione ma il valore umano della comunicazione.