
TRAMA
Durante un trasferimento in treno da Marsiglia a Parigi, il detenuto Vogel elude la sorveglianza del commissario Mattèi e fugge dal finestrino. Contemporaneamente Corey, appena uscito dal carcere dove un secondino gli ha suggerito un colpo milionario in una gioielleria, è in viaggio verso Parigi e si ferma in un autogrill. Nella sua fuga Vogel raggiunge casualmente lo stesso autogrill e si infila furtivamente nel bagagliaio della macchina di Corey, che si accorge di tutto senza scomporsi. Nel corso del viaggio i due hanno occasione di rendersi utili a vicenda, rivelandosi entrambi leali e coraggiosi. Arrivati a Parigi, Corey invita Vogel a unirsi a lui nel colpo alla gioielleria; i due hanno però bisogno di un terzo uomo, un tiratore scelto in grado di disattivare il sistema d’allarme con una carabina di precisione. La loro scelta cade sui Jansen, ex poliziotto radiato dal corpo per alcolismo e attualmente ossessionato da deliri e allucinazioni. Nel frattempo il commissario Mattèi non ha allentato la morsa, intensificando le ricerche e interpellando uomini del milieu per avere notizie dell’evaso. Messo a punto il colpo in ogni dettaglio, Vogel, Corey e Jansen riescono a realizzarlo perfettamente, ma all’ultimo momento il ricettatore si rifiuta di acquistare i girelli trafugati rimangiandosi vigliaccamente la parola. Per piazzare la refurtiva, i tre decidono allora di rivolgersi a Santi, proprietario di un importante locale notturno e uomo fidato dell’ambiente. Questi tuttavia, precedentemente contattato da Mattei e incastrato dal gioco sporco del commissario, tradisce la loro fiducia e li vende alla polizia, che organizza un’imboscata in una villa fuori Parigi. Solo Corey dovrebbe presentarsi all’appuntamento col falso ricettatore, ma Vogel e Jansen, subodorando il pericolo,non si tirano indietro e accorrono sul luogo cercando di proteggere il complice. Moriranno uno dopo l’altro sotto il fuoco degli agenti in agguato.
RECENSIONI
Debolezza, stanchezza, aridità: 'l'inizio della fine'. Sono queste le considerazioni che si leggono più frequentemente a proposito de Le Cercle rouge, considerazioni che, secondo chi scrive, denotano una superficialità e una miopia preoccupanti, associate probabilmente alla diffidenza critica per i film fortunati al botteghino. Dodicesimo e penultimo lungometraggio di Jean-Pierre Melville, I senza nome (il titolo italiano si riferisce al fatto che i personaggi si chiamano soltanto per cognome) è infatti uno dei più grandi successi del cinema francese e uno degli esempi più clamorosi di fraintendimento critico del tempo (e non solo). Non a caso, nel Castoro Cinema dedicato a Melville, Pino Gaeta ricorda come le recensioni del periodo parlassero addirittura di «trappola per spettatori». Niente di più falso: al di là di un cast ricco di nomi di sicuro richiamo spettacolare (Alain Delon, Yves Montand, André Bourvil, François Périer, Gian Maria Volonté), Le Cercle rouge è un film melvilliano fino al midollo e lontanissimo dall'essere accattivante o addirittura compiacente nei confronti del pubblico. Melville, indubbiamente, non credeva in un cinema che respingesse lo spettatore, che lo costringesse ad una superattività interpretante, a rincorrere il senso (come avveniva nel cinema della disprezzata Nouvelle Vague). In una parola, Melville credeva nel cinema classico. E Le Cercle rouge è a tutti gli effetti un film classico, ma di una classicità sublimata, magnificata, proiettata nel cielo della perfezione. Ancora una volta è il noir americano lo spunto iniziale: lo studio attento dell'adorato Giungla d'asfalto rivela a Melville la presenza simultanea delle diciannove situazioni possibili tra «guardie e ladri». Il paradigma del noir. Questa osservazione di stampo parastrutturalista - un approccio quasi proppiano - lo porta a ideare un film che sia 'una specie di antologia' di tutti i suoi film polizieschi e al tempo stesso una declinazione esemplare e definitiva della grammatica del genere. Si tratta di un chiaro delirio di onnipotenza, è evidente, ma un delirio concepito dalla mente più adatta a conferirgli una forma visiva, a trasformarlo in Cinema. Con un'ambizione così sproporzionata, Melville è condannato a scontrarsi con la resistenza della realtà: il cast non è quello che lui vorrebbe (al posto di Bourvil doveva esserci Lino Ventura, la parte assegnata a Volonté doveva andare a Jean-Paul Belmondo) e la troupe, non essendo diretta emanazione del suo intelletto, gli sembra tremendamente inerte (a tal punto da evocargli l'immagine di una medusa sulla spiaggia). Se a tutto ciò aggiungiamo che sul set tra il regista e Volonté si creò un'antipatia viscerale (uno si dichiarava provocatoriamente uomo di destra, l'altro un «gauchiste» convinto e militante), il quadro, nella sua preoccupante instabilità, è pressoché completo. Tuttavia la tensione di fondo non compromette affatto l'esito finale: contrariamente a quanto sostiene Rui Nogueira nell'intervista contenuta nel dvd francese, Le Cercle rouge è senza ombra di dubbio il Fanny & Alexander di Jean-Pierre Melville, la summa del suo cinema. Non solo per le tematiche (la solitudine, l'amicizia virile, il coraggio, il tradimento, la colpa, la Morte, il fatalismo) ma, soprattutto, per lo stile. Come sintetizza François Nourissier su «L'Express» del 26/10/70 (riportato da Pino Gaeta), I senza nome è 'il trionfo di un mestiere totalmente dominato'. Ma non si tratta soltanto di 'mestiere', si tratta di puro pensiero cinematografico, capacità di riformulare interamente il reale attraverso immagini ideali, assolute, letteralmente incorruttibili.
Basato su una sceneggiatura programmaticamente convenzionale, Le cercle rouge è infatti un film di pura messa in scena, di glorificazione visiva dei segni distintivi del polar e al tempo stesso l'apoteosi del 'Sistema Melville', un metodo faticosamente e rigorosamente costruito in quasi venticinque anni di attività. Solennemente pronunciata dal Buddha disegnando un cerchio rosso con un pezzo di gesso, la citazione iniziale ('Se è scritto che due uomini, anche se non si conoscono, debbono un giorno incontrarsi, può accadere qualsiasi cosa e possono seguire strade diverse. Ma il giorno stabilito, ineluttabilmente, si ritroveranno in questo... cerchio rosso') piazza il film sotto l'insegna dell'ineluttabilità più radicale, del fatalismo più estremo. E difatti le vicende di Corey (Delon), un ex carcerato appena uscito di prigione, Vogel (Volonté), un detenuto evaso coraggiosamente durante un trasferimento in treno da Marsiglia a Parigi, e Jansen (Montand), ex tiratore scelto della polizia ora alcolizzato, si raccolgono inesorabilmente attorno alla preparazione di un colpo milionario alla gioielleria di Place Vendôme. Inutile dire che, una volta realizzato il colpo, i tre saranno incastrati dal gioco sporco del commissario Mattéi (Bourvil) e, attirati in un'imboscata, implacabilmente eliminati dagli agenti in agguato. In realtà solo uno di loro, Corey, dovrebbe cadere nell'imboscata, ma Jansen e Vogel, per lealtà nei confronti dell'amico, accorrono sul posto e finiscono per ritrovarsi nel famigerato 'cerchio rosso'. Ora, è proprio questa prevedibilità, tra le altre cose, ad essere stata rimproverata al penultimo film di Melville: si parla di 'inclinazione al solenne', 'determinismo didascalico', addirittura 'rigidità mentale', ma risulta evidente che, rivolte a un film così matematico, accuse del genere suonano letteralmente assurde. Vera e proprio summa melvilliana, Le cercle rouge proclama orgogliosamente il proprio statuto di pellicola definitiva, opus terminale, ideogramma immutabile: rimproverarle la schematicità significa rimproverarle di essere se stessa. Un'assurdità. Ciascuna inquadratura de I senza nome reca in sé i tratti dell'inalterabilità: lo spettatore assiste a una cerimonia filmica in cui ogni immagine non potrebbe essere chequella. Ma, più ampiamente, ogni movimento di macchina, ogni gesto degliattori, ogni stacco di montaggio (insieme alla scrittura il momento 'forte' del farsi del film, Melville montava personalmente la pellicola alla moviola in un rapporto intimo con le sue immagini che poteva durare mesi) non può che essere quello: nel corso di venticinque anni di attività, Jean-Pierre Grumbach ha messo a punto un sistema visivo infallibile, basato soprattutto sulle interdizioni. Volker Schlöndorff, primo collaboratore di Melville per alcuni anni, ricordava infatti come per il maestro ci fosse un solo modo per girare una scena, altrimenti era proibito: 'È proibito riprendere una donna con la macchina più bassa del suo naso, è proibito far partire di corsa un attore se la scena termina lì, non riprendere in panoramica l'ingresso di un personaggio in un night. 'Regole che rendono bene l'idea di quanto il sistema del regista fosse arrivato al punto di maturazione e compiutezza. Ebbene Le cercle rouge, inverando perfettamente il sistema Melville, rappresenta, nell'assoluta centralità dell'universo maschile (nel film le donne sono fugaci apparizioni, immagini dadimenticare) alle prese con l'ineluttabilità del fato, il culmine stilistico dell'intera filmografia melvilliana e al tempo stesso la celebrazione di una concezione sacra del cinema. Il segreto dello stile melvilliano? La dilatazione. 'Ai miei occhi il cinema è una cosa sacra, e il rituale, la funzione che viene celebrata al momento delle riprese comanda tutto il resto, anche se pongo ben al di sopra delle riprese (...) l'ispirazione, la scrittura e il montaggio' (Jean-Pierre Melville).
