Poliziesco, Recensione

I SEGRETI DI WIND RIVER

Titolo OriginaleWind River
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Durata107’
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Nella riserva indiana di Wind River nel Wyoming, Cory, cacciatore del Dipartimento Ambientale, rinviene il cadavere di una ragazza, amica della figlia morta tre anni prima. Arriva un’agente Fbi: la aiuta con le indagini.

RECENSIONI

Prosegue la trattazione delle frontiere americane (geografiche e non), iniziata con le sceneggiature per Sicario di Denis Villeneuve e Hell or High Water di David Mackenzie: Taylor Sheridan, nato come attore (il serial Sons of Anarchy) e tentata la regia con Vile (torture-porn del 2011), s’è ripensato con uno sguardo ed una scrittura che si alimentano a vicenda. Di Sicario riprende la protagonista, agente Fbi in territorio di lupi ma con custode letale; di Hell or High Water l’umore “esistenziale” ottenuto, soprattutto (previo passo, afflato), con la centralità del commento sonoro discreto ma potente (medesimi autori: Nick Cave e Warren Ellis). La sua messinscena non si rifà alle elaborazioni di Villeneuve [¹], preferisce immergersi nella natura inospitale e nei vissuti ai margini in cui si specchia, nobilitando il sotto-genere “giallo-poliziesco di provincia”, fiorito soprattutto nel cinema scandinavo (parimenti innevato). Il modo di verniciare ad arte l’apologo morale vive di battute dirimenti [²], di reazioni che illuminano i caratteri, di dolore dell’esistere, di traccia umanista che sovrasta quella di genere. Meno politica delle due precedenti, se non nel farsi carico della difficile esistenza di una comunità di nativi americani in riserva, l’opera penetra sottopelle per il passo desolato e lirico sin dal prologo con contrasto vittima/commento poetico (comune denominatore: l’inverno assassino), per poi elaborare l’esistenza minuta in universo di ritorni e connessioni invisibili attraverso, soprattutto, due espedienti narrativi: la complicità con elaborazione del lutto fra padri senza figlie e la scelta di dipingere l’agente Fbi come emotiva, improvvisata, non indifferente alla sofferenza. Sheridan entra nei chiaroscuri suggerendo forme senza essere plateale [³], sottraendo e perseguendo la via del carattere che plasma il plot, non viceversa. A maggior ragione, la svolta da “exploitation” nella cruenta parte finale con sparatoria e resa dei conti da “occhio per occhio” [⁴], appare come diniego che rincorre la spettacolarità, ma l’epigrafe non equivoca gli intenti: “Qui la fortuna non c’è. Sopravvivi o ti arrendi. I lupi uccidono i più deboli, non i più sfortunati”.


[¹] Da citare, però, l’attacco di montaggio in cui il flashback sulla vittima si lega al presente, bussando alla porta.

[²] La lezione d’umanità alla supponenza dell’agente da parte del padre della vittima; l’elaborazione del lutto insegnata a quest’ultimo dal cacciatore; la constatazione che gli stessi eventi, nel medesimo ambiente inospitale, generano reazioni differenti (pensando al tossico fratello della vittima).

[³] Un esempio: il freddo, sottile veleno fra i due ex-coniugi.

[⁴] Hell or High Water: il motivo “anarchico”, giustizialista.