TRAMA
Kabul, 2001. Dopo l’arresto del padre, accusato ingiustamente di essere un nemico dell’Islam, Parvana si veste da ragazzo per occuparsi del sostentamento della sua famiglia.
RECENSIONI
“Le storie restano nei nostri cuori anche quando il resto non c'è più”
Così Nurullah, in tempo di pace insegnante, invita Parvana, sua figlia - distratta e triste all'idea di dover vendere al mercato il suo vestito più bello, mai indossato - a studiare la Storia del suo popolo, che diventa racconto tramandato a voce, essendo le scuole chiuse e i libri proibiti. Le storie insegnano, le storie ammoniscono, le storie divertono, curano, salvano. Come Sherazade riesce a rinviare di notte di notte la sua condanna a morte con una fiaba, così Parvana stempera il cupo presente tramite un racconto - narrato a più riprese nel corso del film - il cui eroe archetipico, che salverà la sua gente dal terribile re Elefante, altri non è che il fratello maggiore Sulayman, morto tragicamente qualche anno prima; come? Non si sa, non se ne vuole parlare; è la storia che Mama-jan non vuole raccontare. Di Sulayman sono i vestiti che Parvana sceglie di indossare, per permettere alla sua famiglia di mangiare dopo che il padre, ingiustamente arrestato dai talebani, è rinchiuso, irraggiungibile, in prigione. Il fratellino Zaki ha solo due anni, e alle donne non è permesso uscire senza essere accompagnate da un uomo; quell'uomo, ancora bambino, che Parvana sceglie di interpretare, tagliandosi i capelli, spezzando la sua infanzia, nascondendo la fiorente femminilità (“È già in età da marito!” grida un soldato). Aatish (questo il nome scelto, fuoco il significato) abbandona il velo per indossare il cappello, senza celare i brillanti occhi verdi - il design è chiaramente ispirato alla famosa Afghan Girl della fotografia di Steve McCurry – che ne tradiranno l' identità.
Un po' Mulan, ma tanto Persepolis, I Racconti di Parvana (rititolato da Netflix Sotto il Burqa, come il romanzo da cui è tratto, il primo della Trilogia del Burqa) è un film tutto al femminile, anche se forzatamente maschile: Parvana, la madre, la sorella e l'amica Shauzier (anche lei en travesti) sono tutti ritratti di giovanissime, giovani e non più giovani donne coraggiose, vessate ma mai spezzate dalla triste condizione in cui sono imprigionate, le cui vicende sono state ispirate da interviste raccolte in un campo profughi in Afghanistan dalla scrittrice Deborah Ellis, poi semplificate per il grande schermo dalla sceneggiatrice Anita Doron, e trasposte in immagini dalla regista Nora Twomey; Angelina Jolie, da sempre impegnata in cause umanitarie, figura come produttrice esecutiva. La loro peculiare sensibilità si riflette in ogni disegno, traspare in ogni respiro, grido, abbraccio, dai dettagli delle più intime scene familiari - quasi tutte immortalate a cena attorno al comune piatto di riso e uvetta- e degli sciocchi litigi tra sorelle o delle violenze più insensate e ingiustificate, esplicite ma mai enfatizzate. Il maschio è un animale incattivito, rabbioso, vittima del tempo, che opprime, soffoca, nasconde il principio vitale femminile, in nome dell'odio e della guerra: “è la pioggia che fa crescere i fiori, non il tuono”, è la fiaba che salva l'uomo, è Sherazade che redime il re di Persia e salva tutte le altre donne. Emblema in tal senso è il talebano Razaq, analfabeta, che si fa leggere le tristi lettere da Parvana/Aatish, la quale, con la sua innocenza ne conquista il cuore, rivelandogli la sua identità e implorandone l' aiuto e la compassione. Sul piano del racconto nel racconto è così che Sulayman sconfigge il re degli Elefanti, fuor di metafora il regime talebano; gli viene rivelato che nel suo viaggio avrebbe avuto bisogno di tre oggetti: “una cosa che risplenda, una cosa che intrappoli e una che addolcisca”,quest'ultima, la verità sulla sua morte, ovvero la confessione dell'inconfessabile, il coraggio della denuncia.
L'animazione è opera dello studio irlandese Cartoon Saloon già fattosi notare per The Secret of Kells e La Canzone del Mare, con cui condivide lo stile e le semplificazioni grafiche, ormai marchio di fabbrica a là Studio Ghibli, sempre ispirato alla cultura di cui la storia raccontata è intrisa. Questa ricerca, attentissima al dettaglio, è evidente soprattutto nel design ricco e colorato del racconto di Parvana, una CG a 12 frame al secondo – il resto del film è in un' animazione tradizionale leggera, immediata, non di maniera - che riproduce la cut-out animation, un tipo di stop-motion in cui a muoversi sono pupazzi di cartone dalle giunture mobili, fotografati immagine per immagine, eliminando, in questo caso, ogni prospettiva e profondità, come nelle miniature arabi medioevali. Il sottile gioco di richiami è duplice perché si omaggia anche uno dei primi lungometraggi animati della Storia, Le Avventure del Principe Achmed (1926) della regista tedesca Lotte Reiniger, pioniera del campo, in cui a muoversi erano però, a causa delle limitazioni tecniche dell'epoca, silhouette monocromatiche, nella cornice – ovviamente - delle Mille e una Notte. Le musiche etniche di Mychael e Jeff Danna non fanno che impreziosire ulteriormente questo gioiello di pura freschezza estetica e narrativa. Concludendo, I Racconti di Parvana è un raro, purtroppo, esempio di animazione adulta, asciutta, diretta – al cuore e allo sguardo – commovente ma mai patetica, veicolata da uno stile appealing mai accomodante o fine a sé stesso. Leggere il film semplicemente come un inno alla immaginazione che permette una fuga dal reale e una spinta a vivere, sarebbe riduttivo e fuorviante; film del genere, anche suggestivi e riusciti, abbondano, ma quello che rende I Racconti di Parvana speciale, unico del suo genere, è la straordinaria capacità di condensare in un sol colpo denuncia e poesia, Arte e Storia, nel racconto del presente attraverso una fiaba che si fa verità, memoria del passato e speranza per il futuro (come in Oceania), confessione salvifica.
“Mi chiamo Sulayman, mia madre è una scrittrice, mio padre è un insegnante. Le mie sorelle litigano sempre tra di loro. Un giorno trovai un giocattolo per strada, lo presi ed esplose. Non ricordo cosa successe dopo, perché fu la fine”.