Drammatico, Recensione

I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D’AGOSTO

Titolo OriginaleUgetsu Monogatari
NazioneGiappone
Anno Produzione1953
Durata94'
Tratto dada due racconti dell'omonima raccolta di Akinari Ueda, e da "Decoré" di Guy De Maupassant
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Nel villaggio di Ohmi, all’epoca delle guerre fuedali, il vasaio Genjuro fa sogni di ricchezza e dedica tutto sé stesso al lavoro, aiutato dalla fedele moglie Miyagi e dal figlioletto. Dopo una prima pecuniosa vendita in città s’impegna ancor più e, nonstante interrompa i lavori per il sopraggiungere di una milizia, riesce a partire con una barchetta con il cognato Tobei e la moglie Ohama. Avendo scorto dei pericoli durante l’attraversata convince Miyagi ed il bimbo a tornare a casa, ad attenderlo. Giunto nella grande città, dopo una proficua vendita, viene irretito dal fantasma della principessa Wakasa e riesce a liberarsene solo grazie ad un bonzo. Nel frattempo Tobei è preda della sua fantasticheria di divenire un grande guerriero, reincontrerà la moglie in una casa del piacere ed insieme torneranno al vilaggio ove troveranno Genjuro ed il figlioletto.

RECENSIONI

Nel 1953 grazie al successo ottenuto con il precedente lavoro (Vita di Oharu) Mizoguchi ottiene da Masiachi Nagata il via libera per un progetto meditato e rielaborato negli ultimi tre anni. Ugetsu Monogatari, liberamente ispirato ai racconti contenuti nella omonima raccolta del 1776 di Ueda Akinari, storie di fantasmi, avidità e disgrazia ambientate in epoche differenti del Giappone feudale, ed ai racconti sovrannaturali di Maupassant, è certamente il più famoso dei lavori di Mizoguchi, assieme a Sanshō ed al già citato viat di Oharu. Con i lavori di Kurosawa e Ozū, Mizoguchi a lungo è stato emblema del cinema orientale in occidente, all'epoca della prima infatuazione (a parte una brevissima negli anni 20) da parte dei festival internazionali per una cinematografia che appariva radicalmente altra rispetto ai canoni diffusisi via Hollywood anche se, a ben vedere, non lo era così tanto; le pendenze di Kurosawa sono ovvie, meno ma assai ben documentate quelle di Ozu e M. (cfr. i castoridedicati a questi ultimi, e almeno N. burch “To the distant observer”).

Ambientato all'epoca degli scontri feudali, quando armate legate a questo o quel potente scorazzavano nelle campagne e nelle città di un Giappone quasi medievale, Ugetsu Monogatari si svolge, nelle parole del regista, come un rotolo di dipinti. Un movimento questo rintracciabile in tutto il film, dalla circolarità generale impressa dalla prima e dal'ultima sequenza e da quelle fondamentali delle allucinazioni di Genjuro; impressione acuita dai rari e determinanti movimenti di macchina (panoramiche a 180° ed articolazioni di dolly). Nella povera campagna del villaggio gli uomini non sono affatto differenti da quelli di città, ognuno culla sogni bizzari od infantili ed affetti: anche in questa piccolissima comunità però le relazioni umane sono il nerbo che struttura la vita di ogni giorno, un fardello questo che poggia sulle figure femminili capaci di una forza volitiva -ed unalucidità di sguardo- di cui i loro compagni paiono totalmente sprovvisti.

E' proprio questa distinzione basilare a condurre l'evoluzione delle due vicende al centro di Ugetsu: da una parte Genjuro vittima di un sortilegio con la moglie ed il figloletto che, così crede, lo attendono a casa, dall'altra lo sciocco Tobei che diviene samurai senza merito, dimentico della compagna che incontrerà in una casa di piacere. La figura femminile, da sempre centrale nella filmografia di Mizoguchi oltre che, come abbiamo visto, nella sua biografia, domina la luce, fino ad essere sinonimo del focolare domestico, pronta a rinunciare a sè stessa ed alla resistenza fin chè si trova in vita; ancor più risoluta da morta quando è il suo spettro ad attirare la luce (il tornio, il viso e la casa della dama Wakasa) ed a perseguire il proprio obiettivo contro ogni regola cui vincoli la materia. Non si tratta solamente del consueto aspetto del fantasma occidentale costretto ad agire come in vita ma di un essere sovrumano in cui la necessità di agire ha sconfitto il vincolo inerziale della terra cui era legato. Il fantasmatico in questo senso è oltretutto una proiezione del desiderio recondito dell'uomo: la donna adorante che aspetta a casa (la moglie) o l'amante capace di piaceri inimmaginabili. Inevitabile è la sfasatura nell'istante in cui ciò si rivela per quello che è, illusione: si prendano l'incontro nella casa di piacere e la liberazione dall'incantesimo ambedue scioccanti incroci di sguardi d'incredulità. Tobei come Genjuro tirano in ballo l'amore, un affetto molto differente per i due uomini, per spiegare le loro azioni alle donne della loro vita ma queste non oppongono altro che loro stesse e la loro presenza come non si trattasse di esseri mortali ma presenze indelebili, e il voice overfinale lascia ben poco al dubbio.

Queste brevi astrazioni che è possibile desumere dal complesso tessuto narrativo narrativo e visivo che Mizoguchi costruisce, inesorabile fino alla disperazione: se "nessuno soffre quanto O Haru", protagonista di una irreale quanto folle biografia imperniata sulla frustrazione ed il dolore, I Racconti della Luna Pallida d'Agosto completa, in un certo modo, la medesima visione dell'universo costruendo questa piccola ma stranamente esemplare comunità di esseri umani. L'incredibile minuziosità della messa in scena alla ricerca di un'autenticità completa, fino all'astrazione, del periodo storico come dell'emozioni umane ha portato i critici occidentali fin dagli anni '50 a vedere nei Jidaigeki dell'ultimo periodo del regista (almeno a partire dal magnifico "La vendetta dei 47 ronin", opera su commissione in piena Guerra) come feroci accuse allo sviluppo della società giapponese, contro l'asservimento della donna: "la fusione del fantastico e del reale ricordò alcune diavolerie medievali e, come queste, servì da pretesto per condannare il feudalesimo e la guerra" (G. Sadoul, Storia del cinema mondiale, 1964, pag. 506).

A distanza di anni la maestosa perfezione stilistica di Ugetsu mostra forse con maggiore chiarezza la molteplicità semantica di cui è portatore, non solo l'oppressione della donna, non solo le radici violente della società ma una visione articolata della vita umana e delle ambiguità cui il reale si presta agli occhi degli uomini. Così la maestria tecnica della sequenza del ritorno a casa di Genjuro (una panoramica da destra a sinistra a destra in cui l'uomo entra nella sua catapecchia, non trova nessuno ad attenderlo, esce a sinistra per ripetere l'entrata e trovare l'immagine dei suoi desideri: la moglie che prepara la cena) anticipa solo la chiusura che, con un lento movimento a salire dal bimbo sulla tomba della madre, inquadra la vallata con gli uomini al lavoro, in contrasto con la desolazione della medesima immagine che apre il film, evitando ogni semplicistica morale ed al contempo esaltando la "duplicità dell'essere umano teso tra il mondo fisico e quello spirituale" (Acquarello, Strictly Film School).