TRAMA
Anni 60. L’epoca delle radio pirata. Radio Rock, per aggirare la legge, trasmette da una nave in mezzo all’Oceano…
RECENSIONI
Il regista Richard Curtis è l'eminenza grigia della commedia inglese degli ultimi anni; la sua penna è dietro le gag televisive (e le relative sortite cinematografiche) di Mr. Bean/Rowan Atkinson, le hit mondiali di Quattro matrimoni e un funerale e Notting Hill, gli adattamenti dei romanzi su Bridget Jones e molto altro. Curtis, rifacendosi alla prestigiosa tradizione umoristica britannica ha pensato bene di attualizzarne i canoni, di renderla meno sofisticata e laconica, più popolare insomma, senza volgarizzarla troppo. La sua formula ha coinvolto poi il gotha attoriale del Regno Unito (si guardi ai cast dei film da lui scritti, prodotti e/o diretti: non manca nessuno) traducendosi i suoi sforzi in una fabbrica di successi indiscutibili. I love radio rock è l'ultimo frutto, sua seconda regia dopo Love actually, e, ad oggi, il suo risultato più convincente. Ambientando la vicenda negli anni 60, all'epoca delle radio pirata, Curtis, attraverso le vicende di una banda di DJ (che si ispirano a figure realmente esistite) che vivono su una nave nell'Oceano (il riferimento chiave è a Radio Caroline, ma la sceneggiatura vuole chiaramente celebrare lo spirito ribelle di tutte le radio libere dell'epoca) per poter trasmettere senza ostacoli legali la musica che tutto il popolo giovane britannico vuole ascoltare, dipinge da un lato l'atmosfera di un'epoca e dall'altro vi inserisce una teoria di micronarrazioni in tono, dando spazio e ritagliando adeguatamente una serie di figure tutte azzeccate. Non scadendo mai nel pretestuoso, tenendo ferma la barra sulla visione d'insieme, non frammentando mai il narrato, Curtis, complice un registro brillante marcato, ma mai squilibrato, riesce a caratterizzare i due ambienti descritti: quello anarchico e edonistico della nave e quello imbalsamato ed ipocrita del Ministero che intende mettere fuori legge le trasmissioni radio pirata. Nulla di eclatante, ma il film scivola via senza perdere colpi, con trovate francamente irresistibili (Stay with me di Lorraine Ellison diventa, in bocca all'abbandonato Simon, un disperato grido d'amore) e se nel finale indulge in qualche trionfalismo di troppo, si fa perdonare le sbavature con un rosario di briose interpretazioni. Un film, proprio per questo, fortemente penalizzato dal doppiaggio che annienta, senza colpo ferire, anche tutti i giochi di parole (l'attendente del Ministro, Twatt - twat, cretino - diventa Pirlott...).