Drammatico

I GATTI PERSIANI

Titolo OriginaleKasi Az Gorbehaye Irani Khabar Nadareh
NazioneIran
Anno Produzione2009
Durata106'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Ahskan e Negar, appena usciti di prigione, hanno un sogno: mettere su una band e ottenere i visti necessari per partecipare ad un evento musicale a Londra.

RECENSIONI


Per Ghobadi non è più Il tempo dei cavalli ubriachi. L’orizzonte giovanile adesso è alle prese con i propri sogni, con il proprio desiderio d’emancipazione, rincorre un’iconografia straniera di miti e possibilità espressive, spera che essa sia un nuovo punto di partenza, un luogo di adozione per chi ambisce al cambiamento.
I muri degli scantinati, dei garage, delle soffitte, di tutte le improvvisate e clandestine location, dove Ashkan, Negar e Nader tenteranno di formare la tanto bramata band, rigurgitano i segni della –filia occidentale. Da un Bogart in posa, passiamo al poster degli Arctic Monkeys, senza dimenticare i quattro di Liverpool.Attenzione però, l’emulazione non è l’unica via di fuga. C’è la tradizione, l’attaccamento ad un paese per cui si lotta ( e si è lottato). Ecco allora che il viaggio nell’arte non riconosciuta ritorna lentamente al cuore dell’identità culturale, nell’incontro con dei musicisti sempre più legati alle proprie radici.Non è una retromarcia, ma solo il tentativo di far coesistere utopicamente le due prerogative fondamentali, i due patrimoni per un pensiero che possa definirsi libero.
Questa libertà arde, elettrizza l’immagine, non spegnendosi mai sull’esibizione feroce ed esplicita della denuncia. E pensare che si tratta di un’opera prodotta e realizzata senza autorizzazione, costata allo stesso regista più di un fermo durante le riprese. Ne I gatti persiani l’ostilità del regime aleggia, imponendosi però solo in brevi tratti “giocosamente” parodici (il paradossale confronto tra Nader e il giudice; il sequestro da parte della polizia del cane di Negar) e rigorosamente confinata nel fuoricampo. A dominare invece è l’energico sentimento dei giovani protagonisti, il loro incessante via vai tra i vicoli e i luoghi fuorilegge di una Teheran disagiata, in cui, quasi si trattasse di un piccolo miracolo, è il potere della musica a superare fisicamente (e metaforicamente) le barriere della clandestinità.Gli spazi angusti della realtà underground si spaccano per girovagare impazziti tra le strade della capitale, inquadrando di sfuggita spettatori inconsapevoli e spesso restii, esaltando i tratti di altri che scherzano con la telecamera, muovendosi tra il traffico e la vita cittadina, non mancando però di mettere in luce le profonde contraddizioni e i limiti sociali. Sono queste sequenze grezze e amatoriali, montate sul ritmo dei brani suonati di volta in volta, che fanno emergere il fulcro problematico della quotidianità.
E’ la musica quindi il punto di congiunzione per una struttura ibrida che alterna la narrazione del dramma privato con digressioni-videoclip di taglio documentaristico.Non c’è frizione in questo dualismo che sebbene sia (inevitabilmente) segnato da alcuni passaggi meno convincenti di altri, mantiene una carica comunicativa tesa e immediata, arde di responsabilità morale, rifuggendo però il classico baratro del didascalismo. A crearsi è un’intesa, quasi una fami(g)liarità  con le vicissitudini dei personaggi. Ghobadi ci dice quanto questa rivalsa generazionale e idealistica sia più vicina a noi di quanto sembri. Mancano purtroppo dei padri, delle figure che possano garantirne un futuro radicalmente diverso.Perché la speranza di essere adottati per mezzo di un visto o di un passaporto è mera illusione.
La dolce storia dei gattini di Nader, purtroppo, non va oltre la similitudine che si porta dietro.