TRAMA
Qiao è innamorata di Bin, un gangster locale e, durante uno scontro tra bande rivali, usa la rivoltella per proteggerlo. Per questo atto di lealtà, la donna viene condannata a cinque anni di prigione. Dopo il suo rilascio, va a cercare Bin per riprendere da dove si erano lasciati.
RECENSIONI
Nel suo quinto lungometraggio, The World (Shijie, 2004), Jia Zhangke compiva una svolta nel suo cinema, anche geografica: era infatti la sua prima opera ambientata fuori dalla sua Heimat, la provincia dello Shanxi, nelle cui varie città erano girati tutti i film precedenti. Jia approdava a Pechino che era vista, sempre nelle altre sue pellicole, come un miraggio all'interno di un mondo dallo sviluppo vertiginoso, ma a diverse velocità. E con il grande parco tematico del film, il Beijing World Park costruito per dare l'illusione, con le sue riproduzioni dei monumenti di tutti i paesi, di poter avere tutto il mondo a portata di mano, Jia crea un ambizioso manifesto metaforico del suo cinema a venire, consistente nel contemplare, inglobare il mondo, le sue antinomie, far coesistere tempi e luoghi diversi e distanti. Non è quasi mai uscito dalla Cina, è vero, con i suoi film perché la Cina stessa si candida a essere mondo, a fagocitarlo e pervaderlo come nel parco tematico di Pechino. Un paese sterminato dove coesistono etnie, lingue, livelli sociali diversissimi e che soprattutto fa convivere, almeno teoricamente, le due opposte ideologie di capitalismo e marxismo. Solo una volta Jia ha girato fuori dalla Cina: in Australia nel film Al di là delle montagne (Mountains May Depart), ma si trattava, come volevasi dimostrare, di una Cina espansa del futuro, di una Cina fluida che pervade tutto il mondo.
Ash Is Purest White, distribuito in Italia con il titolo I figli del fiume giallo, contempla prima di tutto alcuni schemi della filmografia di Jia Zhangke. C'è quello dello Shanxi, che rappresenta la fase giovanile del regista ma anche il suo ritorno nella maturità, com'è il ritorno geografico alla fine del film. Ora il regista lavora per lo sviluppo della sua regione natia, con il suo centro per le arti di Fenyang, sua città natale, o il suo festival di Pingyao, o la sua attività di membro dell'Assemblea nazionale del popolo. C'è lo schema narrativo di Unknown Pleasures (2002), con gli stessi protagonisti, gli emarginati della città mineraria di Datong. E quello di Still Life, il rincontrarsi a Fengjie, nel villaggio che poi non ci sarà più, sommerso nella faraonica diga delle Tre gole sul fiume Yangtze. I nomi dei personaggi, i luoghi e soprattutto le date in cui si snoda il film combaciano con quelli di questi due precedenti film. Con il legante che attraversa tutti e tre i film, giungendo fino al 2018, al presente, rappresentato da Tao Zhao, la musa del regista. E Jia Zhangke riutilizza anche materiale dal loro girato: il tragitto temporale è reale e ci fa vedere ancora finanche i territori che sarebbero stati a breve sommersi. C'è poi in abbozzo la struttura di Platform, perfezionata con Mountains May Depart, quella di attraversare una lunga fase storica della Cina, scandita nei capodanni, e vederne la trasformazione profonda attraverso la cultura popolare, le canzoni ma anche i film. Qui si balla sulle note di YMCA, che si collega ai trenini di Mountains May Depart sulla canzone Go West, pure dei Village People ma nella versione dei Pet Shop Boys. Ci sono danzatrici, spettacolini di strada. E si vedono i film noir di Hong Kong con Chow Yun-fat (viene citato espressamente un film minore quale Tragic Hero di Taylor Wong, del 1987), che rappresentano un modello di vita per i ragazzi del film. E al karoke si canta il celebre motivo di Sally Yeh Qianzui Yisheng (Drunk for Life), simbolo del film The Killer di John Woo.
Il cinema di Hong Kong rappresenta anche la cultura di un sistema capitalistico come quello della ex-colonia britannica, che ha pervaso la Repubblica Popolare. I traffici con Hong Kong e Macao, i loro casinò, l'importazione di sigari (ancora l'iconografia di Chow Yun-fat) fanno parte dei flussi economici delle attività criminali. La commistione tra i due sistemi regna sovrana. I minatori di Datong che protestano contro la rilocazione dell'ufficio minerario urlano lo slogan: «Combatteremo questi capitalisti fino alla fine», rivolti alle autorità della Cina Popolare. Il signore incontrato sul treno sostiene che non ci sia differenza ormai tra una società privata e una statale. Il passaggio tra le prime due fasi del film, quella di Datong del 2001 e quella di Fengjie del 2006, rappresentano due stadi della crescita del capitalismo. I piccoli delinquenti della prima parte (il capitalismo embrionale dell'usura e del riciclo in un Far West), finiranno riciclati come imprenditori o colletti bianchi nella seconda, una volta scontato il carcere. E il ragazzo che gli faceva da autista, ora gira in Bentley, dice Bin. Ma c'è spazio anche per la religione cristiana, nella donna sul battello che recita il Padre nostro, nel babelico universo del regista.
Due sistemi, il marxismo e il libero mercato, che le autorità cinesi cercano di far coesistere con il legante della dottrina confuciana, di recente riabilitata. Bin e la sua gang vivono nel mito dello “jianghu”, che rappresenta una sorta di mitologica terra dei “fiumi e laghi”, governata da ideali cavallereschi, modellati su principi confuciani e moisti. Quei principi che governano le gesta dei cavalieri erranti del genere wuxia, poi trasferiti nell'etica del genere noir. Principi trascendentali che il cinema di Hong Kong ha custodito nei suoi generi popolari, proibiti in Cina durante la Rivoluzione culturale e poi restituiti in epoca recente nel paese. Così Bin e co. Li hanno assimilati e si ritrovano nella venerazione della statua del leggendario eroe Guan Yu, un vero e proprio totem. Quando viene esibita, uno dei membri della gang decide di non pretendere tassi usurai nella restituzione di un prestito. La parola jianghu fa parte anche del titolo originale cinese del film, Jiang hu er nü, traducibile come “Figli e figlie dello jianghu”, indicando il gruppo di ragazzi che si identificano in quei precetti. Ma il titolo riprende anche quello di un progetto mai realizzato di Fei Mu, il grande regista cinese venerato da Jia, inviso a Mao, e autore del capolavoro Spring in a Small Town (1948). Un progetto che prevedeva la storia di un circo itinerante, come un modello per tutta la filmografia di Jia Zhangke. Il cinema di Jia procede così fagocitando i film precedenti ma anche i classici. Così come A Touch of Sin riprendeva un altro capolavoro quale A Touch of Zen di King Hu.
Ash Is Purest White presenta numerose viste totali, dall'alto: agglomerati di palazzi di architetture diverse che si affiancano, strutture fatiscenti accanto a quelle postmoderne, nel continuo divenire di demolizioni e ricostruzioni. Il corrispettivo spaziale degli ampli archi temporali che il regista è solito abbracciare. La Cina affrescata da Jia Zhangke è un reticolo viario, simboleggiato dalla parte sul treno, che echeggia il groviglio di sentieri selvaggi, vie d'acqua, locande, templi dello jianghu. Un reticolo pervaso di forze centrifughe e centripete, di spostamenti forzati – le rilocazioni dell'ufficio minerario verso Xinjiang e quelle degli abitanti del villaggio che verrà sommerso dalla diga –, di nuove frontiere da conquistare al capitalismo – ancora lo Xinjiang, estrema periferia dell'impero, una Cina che non è più Cina, la terra degli uiguri. E ancora una volta Jia Zhangke straborda nel proprio campo visivo fino ad approdare alla fantascienza, in nuovi territori, a contemplare la volta stellata, come il futuro di Mountains May Depart. L'ufo che Qiao sostiene di aver visto deve essere lo stesso di Still Life. Ma anche i dischi volanti diventano oggetto di preda capitalistica nel progetto del curioso signore del treno.
Ash Is Purest White si chiude con immagini delle telecamere di sorveglianza, tanti quadri che si affiancano in un unico schermo, tante inquadrature di un paese, tanti film di un progetto cinematografico come quello di Jia Zhangke.