TRAMA
Nel 2027 il mondo è in preda al caos: terrorismo, repressione violenta, segregazione razziale. E le donne non partoriscono più…
RECENSIONI
Tratto da uno dei romanzi più celebrati della giallista inglese P. D. James, l'opera dovrebbe segnare il ritorno di Cuarón al "cinema d'autore" (?), come se il regista di Y tu mamá también ci avesse regalato, in passato, grandi capolavori personali e non avesse realizzato su commissione il suo lavoro a mio avviso migliore, il terzo episodio della serie di Harry Potter.
Fantascienza "morale", politica, "alta" verrebbe da dire, volendo chiaramente "dialogare" col presente e fungere quasi da ammonimento. Il grave errore commesso dal regista è prima di tutto "teorico": non avendo fiducia nelle capacità del "genere" stesso di veicolare o stimolare indirettamente riflessioni di carattere filosofico o politico (e ciò denota una poco invidiabile ignoranza della storia del cinema), non si perita di denaturarlo, cercando di riconfigurarlo non in funzione di un racconto più complesso, ma della trasmissione di un Messaggio. Quest'ultimo, sottolineato e ratificato istericamente ogni tre minuti, finisce col divorare la narrazione, che diviene puramente pretestuosa, fiacca. Non vi è nulla da leggere in filigrana, tutto è gridato, non vi è un personaggio che non incarni un Valore o non sia riconducibile ad una figura vetero o neotestamentaria. Azione, pausa di riflessione, pistolotto da predicatore solitario, azione, pausa meditabonda, predica su cosa potremmo diventare e così via, verso il "domani": questa, in sintesi, la rigida scansione degli eventi.
I tanto osannati piani sequenza, sicuramente ben realizzati, sono puro fumo negli occhi, esercizi di buona calligrafia esposta ex cathedra da un saccente imbonitore, tonitruanti, avvolgenti ma fondamentalmente gratuiti, con tanto di risaputa macchia di sangue ad imbrattare l’obiettivo per buoni cinque minuti (altro che Spielberg!). La "visione del futuro" veicolata dal film, in più, non è dissimile da quella che può avere un bimbo al primo anno di catechismo che la sera, complessato e avvinto dai sensi di colpa per il Male nel mondo, guarda il telegiornale e capisce che non c'è più speranza. Un immaginario certo verosimile, ma di una prevedibilità sconcertante ed ingenuo il regista che gli dà forma, nel suo ostinato ricorso al simbolo, alla metafora sguaiata, ostentata per spettatori progressisti cattolici e molto di bocca buona: dai migranti deportati alla nave del futuro nomata molto sottilmente "Tomorrow", fino allo stesso "fatto" a cui ruota attorno la narrazione, una inevitabile fine della fertilità femminile.
Un prodotto Midcult irritante come pochi, con personaggi e situazioni di dubbio gusto (l'hippy Michael Caine, che fuma canne ascoltando "Ruby Thursday" versione Battiato!; o la podofilia latente nel paracristologico dettaglio degli infradito che lo scalzo Clive Owen è costretto ad indossare) e ammiccamenti "arty" per chi ha studiato (un David michelangiolensco tanto per gradire, Guernica in sala riunioni per allietare gli invitati, un porco volante “à la Pink Floyd" che fa molto modernariato). Julianne Moore schiatta dopo 40 minuti, mentre l'indomito Clive resiste fino alla fine: molto glamour e molta classe, due espressioni due (con o senza trench, lui che sarebbe un ottimo attore), ma riuscire a rendere credibili dialoghi che paiono scritti dai fratelli Wayans sarebbe stata impresa ardua anche per un Lawrence Olivier in piena forma. Il film più sopravvalutato della Mostra, addirittura più detestabile del film di Aronofsky, che certo è puro "onanismo misticheggiante", ma almeno è un oggetto "unico" ed originale, benché frutto di un “delirio sincretistico” per il quale non mi sorprenderebbe il ricorso ad un TSO.