Drammatico, Recensione

I BEI GIORNI DI ARANJUEZ

Titolo OriginaleLes beaux jours d'Aranjuez
NazioneFrancia, Germania, Portogallo
Anno Produzione2016
Durata97'
Sceneggiatura
Trattodall'omonima pièce di Peter Handke
Fotografia

TRAMA

Un bel giorno d’estate. Un giardino. Una terrazza. Una donna e un uomo sotto gli alberi, con una dolce brezza estiva. In lontananza, nella vasta pianura, la silhouette di Parigi. Comincia una conversazione: domande e risposte tra la donna e l’uomo. Riguardano le esperienze sessuali, l’infanzia, i ricordi, l’essenza dell’estate e le differenze tra uomini e donne, riguardano la prospettiva femminile e la percezione maschile. Sullo sfondo, nella casa che si apre sulla terrazza, sulla donna e sull’uomo: lo scrittore, nell’atto di immaginare questo dialogo e di scriverlo. O forse è il contrario? Forse sono i due personaggi, lì in fondo, che gli dicono cosa mettere sulla carta: un lungo e definitivo dialogo tra un uomo e una donna?

RECENSIONI

Les beaux jours d’Aranjuez può essere considerato come il terzo capitolo di un'ideale trilogia che si comporrebbe attorno ai precedenti Pina e Ritorno alla vita. La continuità non è data semplicemente dal mezzo (il 3D), ma anche dalla maniera in cui questo viene piegato per sostanziare un preciso disegno registico, che può essere sintetizzato adoperando le parole con cui Luca Pacilio è intervenuto riguardo al film del 2015: una riflessione «sulle possibilità della creazione artistica» che «rispecchia metaforicamente il lavoro di realizzazione».
Anche in Les beaux jours d’Aranjuez ciò a cui si assiste è il farsi dell'opera: uno scrittore siede difronte alla sua macchina da scrivere; sulla scrivania la riproduzione, in piccolo, di un tavolo su cui poggia una mela; elementi che troviamo trasposti (il tavolo in grandezza reale) nel giardino su cui si affaccia la finestra del suo studio. L'unica differenza è che attorno stanno un uomo e una donna coinvolti in un dialogo estivo, come recita il sottotitolo del dramma «intimo e inquietante» (a detta del regista) di Peter Handke che Wim Wenders ha ripreso per realizzare questo film.
La prima impressione è quella di essere testimoni della figurativizzazione del testo a cui lo scrittore sta lavorando (mentre lui immagina noi vediamo). La macchina da presa compie però dei continui ribaltamenti di prospettiva, ridisegnando le dinamiche e ponendo quindi lo spettatore nell'impossibilità di stabilire con certezza quale sia la fonte originaria nel discorso: sembra, infatti, che in alcuni momenti la creazione prosegua indipendentemente dal proprio creatore e che questo si trovi quasi a svolgere un ruolo ancillare rispetto alla scena, come se non sia più lui a stabilire cosa l'uomo e la donna debbano dire, ma che siano loro a suggerirgli cosa mettere sulla carta.

Quale utilità ha il 3D ai fini di questa operazione? Forse la risposta è suggerita da Roger Odin quando, tenuto conto della riflessione greimasiana, parla della necessità di passare dalla figurativizzazione all'iconizzazione. L'iconizzazione corrisponderebbe a una forma superiore di figurativizzazione, il cui fine è quello di «far apparire reale l'immagine del mondo prodotta», creare «l'illusione referenziale». La tridimensionalità, ci dice il regista, è ciò che oggi può consentire a ogni corpo o elemento di raggiungere il grado di esposizione che lo renda massimamente visibile-leggibile (le immagini ci appaiono sagomate, i loro profili stampati con netta evidenza), di rinascere appunto come valori iconici: una rinascita che contiene però in sé i prodromi di un'imminente scomparsa.
E la chiusa del film è inequivocabile in tal senso: nel finale infatti la macchina da presa va a stringere su una delle infinite variazioni di colore del Mont Sainte-Victoire (appesa su una delle pareti di casa dello scrittore) fino a sbriciolare l’immagine in un pulviscolo di pixel. Questa disintegrazione compiuta proprio su quel dipinto crea un ideale campo/contro-campo tra Les beaux jours d’Aranjuez e Reverse Angle: Ein Brief aus New York, corto di Wenders del 1982 che si chiudeva su una citazione di Cézanne: «Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Che il pittore francese fosse un riferimento forte per il regista tedesco è risaputo, lo dimostrano (oltre agli esempi riportati anche l’interludio provenzale realizzato per Al di là delle nuvole di Antonioni) le parole dello stesso Wenders, che a riguardo dichiarò: «Prima di lui c’era la pittura del Salon: illusione degli spazi profondi, prospettiva rinascimentale... Ogni cosa doveva avere un “aspetto reale”. Cézanne rompe con questo».
E uno degli aspetti chiave della pittura cézanniana, che è quello della pluralità dei punti di vista generante uno spazio drammaticamente aperto, illimitato ai suoi confini, risulta essere, per tutto quanto è stato detto, motivo ispiratore di quest'ultimo progetto wendersiano, la cui finalità è quella di riflettere sui principi della percezione, o più giustamente a porsi il problema di come rappresentare la percezione.