Documentario, Sala

I AM NOT YOUR NEGRO

TRAMA

Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King: attraverso la descrizione di questi tre iconici personaggi, e delle loro rispettive, tragiche scomparse, lo scrittore James Baldwin articola un racconto personale che è anche resoconto dell’intera storia americana recente. Da questo suo progetto, rimasto incompiuto, il regista Raoul Peck trae un documentario che vuole riflettere sul presente dell’America attraverso alcune sue fondamentali pagine di storia.

RECENSIONI


Qualche anno fa, nel 2004, fu realizzato il mockumentary C.S.A.: The Confederate States of America, che ipotizzava la vittoria degli Stati Confederati nella guerra di secessione americana e un paese dove la schiavitù non sia mai stata abolita. Un gioco di ucronia volto a denunciare la persistenza di residui segregazionisti anche nell’America attuale. A vedere I Am Not Your Negro del regista haitiano Raoul Peck questa immagine appare non solo rinforzata, ma al di là dell’immaginabile. Il documentario, visto dalla posizione di chi ha vissuto in un paese come Haiti sorto proprio sulla liberazione dalla schiavitù, si basa su quattro figure fondamentali nella storia della lotta per i diritti civili degli afroamericani. Lo scrittore James Baldwin, gli attivisti Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. Strutturalmente il film è l’ideale messa in atto di un manoscritto del primo, Remember This House, un progetto letterario rimasto incompiuto. La storia delle lotte per i diritti civili dei neri, vista attraverso tre figure chiave nelle memorie dell’autore. Ma James Baldwin riuscì a scriverne solo trenta pagine venendo stroncato da un tumore, nel 1987, mentre risiedeva in Francia.
A distanza di trent’anni Raoul Peck fa rivivere quel manoscritto di James Baldwin, lo mette in scena con la voce suadente di un altro afroamericano, il popolare attore Samuel L. Jackson, e lo riempie di filmati di repertorio e di frammenti di film. E soprattutto fa rivivere la rabbia e l’analisi lucida e impietosa dell’autore sul razzismo. Tutto il film è narrato in prima persona, è il diario di Baldwin. Peck usa spesso le scritte su schermo nero che si compilano lettera per lettera, con i caratteri delle vecchie macchine da scrivere. A sottolineare il lavoro dello scrittore, nelle sue cartelle, nelle sue missive all’agenzia letteraria. Tutto il film è dal punto di vista di Baldwin, narrato in prima persona, dalle scritte o dalla voce off, oppure per i brani di repertorio dei suoi interventi nei talk show o delle sue conferenze. Solo in un breve momento si cambia il punto di vista, quando, sempre con una scritta come battuta a macchina, viene messo in scena il rapporto dell’FBI in cui Baldwin veniva ‘attenzionato’ per le sue attività antiamericane e per la sua probabile omosessualità (“Si dice sia omosessuale e ne ha in effetti l’aspetto”), cui segue un filmato di repertorio con un giovane J. Edgar Hoover che garantisce e tranquillizza gli americani: l’FBI lavora per loro.


I Am Not Your Negro si apre con la missiva di Baldwin, che interloquisce con l’agente letterario per il lavoro commissionatogli, e poi con l’immagine di un cavalcavia. È l’inizio di un viaggio, un viaggio per l’America profonda, l’America delle case hopperiane, bianche in legno circondate da uno steccato, accompagnate dalle note di Stormy Weather, l’America delle highway, dei ponti di metallo, dei drive in, fino ad arrivare all’America contemporanea, che Baldwin non ha fatto in tempo a vedere, quella del pestaggio a Rodney King nel 1991, quella dove una vetrina espone i pupazzetti della Statua della Libertà, di Martin Luther King e George Bush accostati a quelli di Hellraiser e dei supereroi Marvel, la storia del paese ridotta a becero merchandise. Nel corso di soli cinque anni l’America ha eliminato i fastidiosi oppositori alla segregazione, Medgar Evers, ucciso il 12 giugno 1963, Malcolm X, il 21 febbraio 1965, Martin Luther King Jr., il 4 aprile 1968. Ognuno con la sua impostazione, anche in polemica tra di loro, la non violenza di Martin Luther King e la lotta con ogni mezzo necessario di Malcom X. Ma il film rievoca anche figure meno note, Dorothy Counts, la prima ragazza di colore ammessa in un istituto per soli bianchi, sbeffeggiata dai compagni in una foto che ha fatto la storia; Lorraine Hansberry, drammaturga e attivista, molto delusa dall’incontro con Robert Kennedy. I tre grandi attivisti vengono raffigurati subito da Peck in uno schermo tripartito, immagine che si ricollega a quelle delle foto segnaletiche della polizia, divise in due, di fronte e di profilo. Le facce sono centrali in I Am Not Your Negro, quelle dei neri e quelle dei bianchi razzisti e nazisti, con i loro osceni ghigni di sberleffo, che Peck esibisce senza alcuna pietà.
I Am Not Your Negro potrebbe essere solo un lavoro d’archivio e di lettura scenica. Già questo basterebbe anche per la necessità del tema. Ma Raoul Peck sa andare oltre, sa giocare con le immagini, accostarle con montaggio dialettico, lavorare di contrasto. Le bandiere naziste esibite dai bianchi razziste, associate al rogo dei libri degenerati nella Germania di Hitler, associato alla scena del film King Kong dove la tribù di neri compie il rito sacrificale della ragazza bianca. Immagini di scontri accompagnate da una voce off d’archivio che decanta paesaggi e bellezze degli USA per promozione turistica. Doris Day con vestitino a paillettes e bottiglia di champagne in mano, da Amore, ritorna! (1961) seguita da immagini di neri impiccati su musica stucchevole.
Il film I Am Not Your Negro non può non ragionare sul suo stesso medium, e gli spezzoni cinematografici sono tanti. Da Lo specchio della vita (1934) di John M. Stahl, da cui Dougas Sirk avrebbe fatto il remake, in cui una bambina bianca viene scoperta e dileggiata in classe come figlia di una donna di colore. Film per il quale la produzione impose che la pelle bianca della bambina fosse dovuta a una sorta di albinismo per evitare il solo pensiero di un rapporto interrazziale. E lo sguardo alla fine, con un treno che parte, tra Rod Steiger e Sidney Poitier, uno sguardo di amicizia virile ma non di più, sarebbe infrangere il tabù dell’omosessualità per di più tra un bianco e un nero. Questo in La calda notte dell'ispettore Tibbs (1967) di Norman Jewison, che avrebbe diretto film progressisti come il Jesus Christ Superstar e Hurricane - Il grido dell'innocenza. E poi gli spot dove i neri sono servi, dove escono cantando da una banana, dove bambini neri sono vestiti da coniglietti bianchi. Oppure le pubblicità dove invece si invita a vedere nei neri un potenziale bacino di consumatori. Sappiamo anche, da altri film come How to Get the Man's Foot Outta Your Ass (2003) di Mario Van Peebles che questi rappresentano solo un piccolo campionario. E di esempi ce ne sarebbero tanti altri.
Quello che emerge dalle vibranti parole di James Baldwin è il razzismo come fattore intrinseco nella storia americana, tanto più insidioso quando è sottile e non manifesto. Il conduttore del talk show che pensa di fare cosa gradita allo scrittore ospite affermando convinto che il razzismo sia quasi estinto visto che i negri sono impiegati come attori in spot pubblicitari. E a ciò non sfugge nemmeno Robert Kennedy, passato alla storia come un campione di democrazia e diritti civili. Se i negri andranno avanti a progredire potranno in quarant’anni ottenere la presidenza del paese, diceva RFK. Fate i bravi e vedrete che alla fine ve la daremo. Questo lo diceva nel 1965 e in effetti dopo qualche anno in più del previsto, 44 per la precisione, è arrivato Obama.