Biografico, Sportivo

HURRICANE

TRAMA

Accusato ingiustamente d’omicidio, il talentuoso boxeur Robin “Hurricane” Carter deve scontare tre ergastoli.

RECENSIONI

Il risveglio dell’intelligenza della razza nera, accantonando i guantoni, era auspicato da Jewison anche in Storia di un Soldato, sempre con Denzel Washington. Il regista canadese s’è costruito una discreta fama di difensore della causa afroamericana a partire da La Calda Notte dell’Ispettore Tibbs (torna anche Rod Steiger). Portare sullo schermo la storia del pugile “Hurricane” solo dopo una sentenza a lui favorevole e non, ad esempio, in quel 1975 in cui Bob Dylan gridava nell’album “Desire” che l’uomo era innocente, è tipico di un cinema hollywoodiano che raccatta l’immondizia sparsa solo se è certo d’avere l’opinione pubblica e le istituzioni ravvedute dalla propria parte. Per non ferire a morte la coscienza sporca del paese, il cinema “allineato” deve dimostrare che le sentenze dei tribunali, per quanto ingiuste, raddrizzano i torti alla fine dell’iter giudiziario. La prima parte, nel suo incastro di flashback, scorre focosa, dando atto a Washington che il suo è un “one-man-show” di gran temperamento, nonostante l’elegiaco vittimismo di cui soffre il suo personaggio e l’inverosimile accanimento del suo antagonista (il poliziotto di Dan Hedaya). Jewison mette potenza nei pugni di rabbia del suo nero allevato nell’odio ed in cerca di vendetta sul ring, unico luogo dove è lecito massacrare un bianco. Cresce l’orgoglio di razza, sfilano documenti dell’epoca sui pestaggi razzisti della polizia, sulle manifestazioni capeggiate da Martin Luther King, Cassius Clay, Dylan ed Ellen Burstyn. Scoperto di non essere invincibile, “Hurricane” si rifugia, come la seconda parte della pellicola, nello spirito: lascia un messaggio nella bottiglia (le sue memorie) e scopre che la parola scritta colpisce più della spada. La drammaturgia invece si fa faticosa e retorica, facendo la spola fra il dramma carcerario, quello processuale e l’indagine poliziesca, con figure sbiadite, lacunose (i tre canadesi), porta-valori, esacerbate nel manicheismo. La “storia vera” diventa paradossalmente inverosimile, una favola in cui quattro folletti senz’arte né parte salvano l’insalvabile e il razzismo “istituzionale” viene additato senza essere mostrato, alimentando l’ulteriore paradosso di un film rabbioso che invoca giustizia e sposa il politicamente corretto, mentre ci si rivolge al Giudice Supremo invocando il suo cuore. Mossa ipocrita almeno quanto le esigue parole spese per la vera vittima di tutta la vicenda, quel John Hartis che subisce la stessa ingiustizia di “Hurricane” senza averne mai goduto i privilegi, film alla memoria compreso.