Commedia, Sala

HUMPDAY

Titolo OriginaleHumpday
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
Durata94'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

Ben e Andrew, ex compagni di college, si rincontrano dopo una decina d’anni. Ben si è sposato, ha un lavoro, una casa e con la moglie sta progettando di avere un figlio. Andrew invece è un sedicente artista giramondo dalla vita disordinata. Durante un party, complice qualche bicchiere di troppo, decidono per sfida di girare un porno gay amatoriale, senza celare la propria eterosessualità, per un festival a tema che si svolge ogni anno a Seattle.

RECENSIONI


Presentato al Sundance Film Festival del 2009 e poi nella Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes dello stesso anno, Humpday (incommentabile il cretinissimo sottotitolo italiano) è l’ultimo prodotto affiliabile al cosiddetto movimento mumblecore, sorto nei primi anni del 2000 all’interno del cinema indipendente americano e caratterizzato sostanzialmente da bassissimi budget di lavorazione (e conseguente ricorso alle videocamere digitali), attenzione focalizzata sulle insicurezze sentimentali e personali di ventenni-trentenni che si mettono a nudo in lunghe chiacchiere borbottate e divaganti (da cui il nome del movimento: “mumble” significa per l’appunto borbottare, mormorare), largo spazio concesso all’improvvisazione e uso di attori non-professionisti o alle primissime armi. Di questo movimento che in realtà ha prodotto giusto un paio di titoli interessanti, attenendosi a uno statuto espressivo, per essere crudeli, da “Cassavetes for dummies”, Humpday rappresenta probabilmente anche il titolo che ne sancisce l’esaurimento. L’estetica mumblecore risulta molto più pensata, meno in linea con l’immediatezza originaria, la narrazione subisce l’innesto à la mode della poetica bromance alla Judd Apatow e uno degli attori protagonisti, Mark Duplass, interprete e regista di altri titoli mumblecore, è uscito dall’anonimato e ha già partecipato a Greenberg di Noah Baumbach (dove tra l’altro compare in veste di coprotagonista anche Greta Gerwig, già “musa” del movimento in questione) nonché diretto Cyrus di prossima uscita nelle sale americane che annovera nel cast nomi come John C. Reilly, Marisa Tomei e Catherine Keener.


L’accoglienza generalmente benevola quando non entusiasta che ha ricevuto un po’ dappertutto questa commedia è probabilmente frutto di alcuni fraintendimenti. Il primo riguarda, come già anticipato, la presunta freschezza della narrazione. In realtà l’attenzione rivolta alla verità ambientale, abbandonato l’impressionismo urbano che animava titoli mumblecore come In search of a midnight kiss di Alex Holdridge o Quiet city di Aaron Katz, è praticamente assente (il film potrebbe benissimo essere ambientato in un teatro di posa e nulla cambierebbe) mentre la spontaneità interpretativa finisce vittima di un’isteria artificiosa assecondata dallo sguardo della regista pedantemente stretto sui volti dei suoi attori. La chiacchiera svacca presto in una logorrea paradossalmente iperscritta (malgrado la presunta improvvisazione) che si morde continuamente la coda, ruotante attorno a un dispositivo narrativo fastidiosamente pretestuoso (e che i due protagonisti nelle ultime scene dichiarino tale pretestuosità è una scappatoia ironica che fa ridere solo loro e l’autrice). Non si capisce infatti perché due maschi etero che fanno sesso gay debba essere un soggetto porno arty “mai visto” che sovverte o dimostra chissà cosa (decisione tra l’altro partorita nel corso di una serata “dionisiaca” tra artisti e artistoidi, invero simile a una riunione tra liceali), denotando tra l’altro questa idea una certa ignoranza da parte della regista-sceneggiatrice delle dinamiche interne al mondo del porno (dove non è per niente cosa insolita che attori maschi etero si producano in sesso omo o viceversa). Sorvolando sulla stanca idea conservatrice del sesso gay visto come “trasgressione dell’ordine” e cartina al tornasole di “rottura degli schemi”, soprattutto in un contesto di trentenni gravitanti in un'area culturale indie, altrettanto pretestuoso suona anche il dubbio del protagonista sulla propria identità sessuale, snocciolato in una confessione ad hoc cosparsa di vaghezza e sottolineato strumentalmente dalla moglie, a sostanziare un discorso su ruoli e condizionamenti sociali in realtà assai debole. Insomma tutta la tiritera su omosessualità latente e omofobia rivelatrice risulta parecchio fasulla.


Altro fraintendimento riguarda lo sguardo blandamente satirico che vorrebbe riflettere sulla fallacia delle rigide categorizzazioni borghese inquadrato/artista open-minded, argomento sottolineato in modo pedestre ad ogni battuta di dialogo (insopportabile in tal senso lo spiegone dopo la partita di basket) e approcciato con uno schematismo altrettanto superficiale (il borghese addomesticato che sa mettersi in discussione, il bohémien un po’ ipocrita che non ha mai concluso nulla), appena divertente giusto in un paio di occasioni e nulla più. Per arrivare infine al dénouement dell’ultima lunga sequenza nella camera d’albergo che dovrebbe essere teatro della perfomance hard, un maldestro tentativo di cinéma-vérité intimista tutto all’insegna della vacuità degli argomenti, di movimenti a vuoto, di imbarazzi calcolati, dell’assenza di qualsiasi tensione narrativa, sessuale, morale. Che la regista possa essere consapevole di questo grado zero della messa in scena, che ci sia un’intenzionalità (auto)ironica in quest’impasse conclusiva di tutte le traiettorie della storia non ne aumenta il valore: Humpday è probabilmente un film che fraintende anche se stesso.