Drammatico, Recensione

HOTEL MEINA

TRAMA

Lago Maggiore, settembre 1943. Un gruppo di sedici ebrei italiani, provenienti dalla Grecia, sono ospiti dell’Hotel Meina di proprietà di Giorgio Benar, un ebreo con passaporto turco (cioè cittadino di un paese neutrale). In seguito all’8 settembre, giorno dell’armistizio fra l’Italia e gli Alleati, un reparto di SS capitanato dal comandante Krassler giunge a Meina. Due giovani, Noa Benar e Julien Fendez, sono strappati al loro amore dal brutale irrompere del drappello nazista. Gli ebrei vengono reclusi nell’Hotel e inizia una settimana di attesa, terrore e speranza. È una strana convivenza tra ebrei, ospiti dell’albergo non ebrei e SS. Si discute sulle possibilità di fuga. Gli stessi tedeschi sono in attesa di ordini. Forse anche per loro si sta avvicinando la fine della guerra. Ma poi inizia l’escalation verso la strage.

RECENSIONI

Il film dell'ottantacinquenne Carlo Lizzani rientra tra le pieghe di quel cinema "necessario" spesso criticato perché attento più ai fatti che alla forma. È vero, lo stile del veterano Lizzani non è al passo con i tempi e rischia di omologare il lungometraggio alle puntate di uno sceneggiato televisivo. L'assenza di innovazione, però, pur limitando la portata del progetto, non ne inficia totalmente la forza. Il pregio maggiore dell'opera, ai cinefili più spocchiosi gioverà ricordare che il cinema è anche questo, è nel raccontare fatti importanti con professionalità e mestiere. Non c'è sciatteria, come in molto cinema assai più pretenzioso, ma volontà di comunicare. Lo spunto è il saggio di Marco Nozza ispirato ai tragici eventi accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale all'Hotel Meina sul Lago Maggiore. L'albergo è infatti diventato il teatro del primo omicidio di massa di ebrei compiuto in Italia. Il fascismo è tema affrontato ampiamente dalla cinematografia, sia nostrana che non, ma i fatti narrati non sono così noti ai più e il film ha un'importante funzione documentaria che non bisogna sottovalutare. La sceneggiatura, a cui pare abbia partecipato anche Pasquale Squitieri (cosa poco gradita ai sopravvissuti all'eccidio per le sue dichiarazioni in favore delle leggi razziali), gestisce senza guizzi, e con qualche schematismo, il destino dei tanti personaggi in cui è frazionato il racconto: gerarchi, turisti italiani e stranieri, sfollati, sono costretti a convivere in un unico luogo, con la diretta conseguenza di frantumare equilibri già precari. La convenzionalità della narrazione prevede il rispetto di tutti i cliché del genere, ma il fatto di anticipare gli eventi, e qualche ingenuità di troppo nella messa in scena, non inquinano del tutto il risultato grazie a caratterizzazioni azzeccate, nei ranghi ma sfumate (i tedeschi, ad esempio, non urlano soltanto ma sono capaci anche di gesti di umanità), e a interpretazioni adeguate. In molti al Festival di Venezia, dove è stato presentato “Fuori Concorso”, hanno fischiato, ma un film che non ambisce all'arte può avere una sua dignità.