Horror

HOSTEL 2

TRAMA

Il solito ostello slovacco è l’anticamera dei soliti orrori del primo Hostel. Ma Hostel: Part II non è il solito horrorucolo._x000D_

RECENSIONI

Hostel: Part II è più focalizzato e ordinato del suo predecessore: là dove Hostel accennava e seminava, il sequel approfondisce e raccoglie. Strutturalmente si presenta assai simile al primo capitolo: a una parte iniziale “leggera” e preparatoria (anche se dall’horror-comedy teen maschile siamo passati al twenty-something femminile) segue la virata survival horror anni ’70 che sfocia in una postilla revenge-movie. Quello che cambia è una generalizzata ma sostanzialmente tripartita “esplicitazione”. 

1) Politica. Hostel2 è un film (fin troppo) esplicitamente anticapitalista. Il messaggio, forte e chiaro, è che tutto si può comprare: non solo i ricconi si comprano le vittime da torturare a morte (riuscita la sequenza dell’”asta” in multi-split-screen) da una sorta di multinazionale specializzata, la Elite Hunting, ma le stesse vittime possono comprarsi la libertà (e la morte dei loro carnefici) “offrendo di più” a quella stessa multinazionale.

2) Cinefila. Nel primo Hostel c’erano chiari riferimenti ai classici di Craven o Hooper e la comparsata di Takashi Miike era di altrettanto immediata lettura. In questo secondo capitolo, oltre a ribadire le referenze originali, si omaggia apertamente, a suon di cameo, un tipo di cinema (non solo Horror) ancor più libero e anarchico come quello italiano degli anni ’70. Si parte con la Fenech, che torna sugli schermi in primo piano, non doppiata, sullo sfondo di un nudo frontale maschile (diavoletto di un Eli), nella parte di un’insegnante [lapalissiano rimando alla seminale trilogia fenechiana composta da L’insegnante (Nando Cicero, 1975), L’insegnante va in collegio (Mariano Laurenti, 1977) e dal crepuscolare L’insegnante viene a casa (Michele Massimo Tarantini, 1978)]. Si prosegue con Luc Merenda nella parte di un ispettore di polizia [Milano trema: la polizia vuole giustizia (Sergio Martino, 1973), Il poliziotto è marcio (Fernando Di Leo, 1973) o il tardo Napoli si ribella (Michele Massimo Tarantini, 1977), solo per citare un’altra possibile “trilogia” di riferimento]; e si finisce con Ruggero monsieur cannibal Deodato nella parte di un cannibale (didascalico di un Eli), inchiodato così alla sua trilogia antropofagica composta da Ultimo mondo cannibale (1976), Cannibal Holocaust (1979) e dal “fuori tempo massimo” Inferno in diretta (1985). Chiude i titoli di coda una sfilza di “ringraziamenti” che comprende nomi come Lucio Fulci e gli stessi, vari, Tarantini, Di Leo, Martino eccetera.

3) Auto-riflessiva, a più livelli. E’ difficile stabilire quanti siano i gradi di separazione che Eli Roth (inter)pone tra lo spettatore e i suoi film – ossia –: a quale “livello” va letto Hostel2? Una prima (banale) considerazione riguarda le già citate componenti intertestuali del dittico Hostel (presenti soprattutto in questo II capitolo), delineanti una topografia citazionista che invita lo spettatore alla decifrazione/orientamento, quindi a quel “gioco del riconoscimento” che mira a coltivare un’intimità spettatoriale e a creare familiarità (meta)cinematografica. Ma quello che fa di Roth uno dei più ludicamente teorici tra i cineasti horror contemporanei è la sua collocazione liminare, il suo status di “traghettatore”: in Cabin Fever si piazzava a metà del guado Horror, tra il “classico” e il “destrutturato”, svelandone la sostanziale identità, e cristallizzava il passaggio postmoderno 90s da Lynch a Tarantino; in Hostel il tentativo (non del tutto riuscito) era quello di esplicitare il passaggio, lo slittamento dell’aggettivo “estremo” dal cinema cosiddetto underground, o comunque di nicchia, a quello mainstream, da multisala. E’ infatti innegabile che un certo oltranzismo (soprattutto) splatter ha in parte abbandonato il territorio alternativo nel quale era confinato in passato (il Buttergereit di Nekromantik, il Vogel di August Underground o lo Yau di Ebola Syndrome, solo per fare alcuni nomi) per contaminare la cinematografia “ufficiale” (la trilogia di Saw), “superufficiale” (l’Hannibal di Scott) o “superufficialissima” (Salvate il soldato Ryan). Conseguenza naturale è una traslazione su larga scala delle riflessioni sui “limiti del rappresentabile” e, anche e soprattutto, sul posizionamento etico dello spettatore nei confronti dell’estremismo, visivo e non, che si trova (volontariamente) a testimoniare. “Perché guardo?” – “Mi piace quello che sto guardando?” – “Perché mi piace quello che sto guardando?”. Domande/riflessioni che fino a non molto tempo fa erano destinate a pochi appassionati che erano riusciti a procurarsi una copia di Aftermath o di Za ginipiggu 2: Chiniku no hana ma delle quali oggi, anche se a livello diverso (i gradi di sadismo non sono certo – ancora – paragonabili), si può discutere all’uscita di un Multicinema Medusa. Eli Roth, tutto questo, sembra saperlo e sembra anche divertirsi molto a renderci partecipi della sua consapevolezza. In Hostel1 l’immedesimazione spettatoriale riflessiva era con la vittima che diveniva carnefice, e giocava dunque col fatto che lo spettatore “desiderava” la tortura (è per quello che era andato al cinema) ed era costretto prima a subirla poi a infliggerla. In Hostel: Part II le cose si complicano sia con l’acuirsi del livello di ferocia e di violenza sia, soprattutto, col frammentarsi dei punti di vista con cui si è portati a immedesimarsi. Non solo, infatti, vengono infranti alcuni tabù cinematografico/morali come l’infanticidio (mutuato, al solito, da cinematografie “altre” come la categoria III hongkongese di The untold story, di Herman Yau) o altri prettamente grafici come l’evirazione/castrazione in diretta, ma si frantuma il posizionamento psicologico ed etico dello spettatore, costretto a farsi in 4 (rectius: 5): vittima combattiva e vendicativa (Beth), vittima innocente e ingenua (Lorna), vittima impulsiva e fragile (Whitney), carnefice (apparentemente) cinico e sicuro di sé (Todd) e carnefice (apparentemente) umano e insicuro (Stuart). E’ in particolare quest’ultimo, il personaggio di Stuart, a giocare un ruolo davvero chiave: sadico atipico, quasi vittima delle circostanze, si fa “doppio naturale” dello spettatore in sala, mimandone l’ipotetica autocoscienza (alla domanda “perché sei qui?” risponde “non lo so”) ma quand’è sul punto di innescare una sorta di redenzione collettiva si trasforma in torturatore vile e odioso, proprio mentre nell’amico Todd si affacciava, invece, un inopinato barlume di umanità. La morte violent(issim)a di entrambi sembra sistemare le cose, ma c’è tempo per un ultimo tiro mancino, meno innocuo di quel che sembra: l’eroina tutta d’un pezzo Beth si dimentica delle amiche di sempre, compra la (sola) propria libertà, castra il suo carnefice, ne dà in pasto i genitali ai cani e diventa vendicatrice della notte, armata di alabarda. Niente male.

Eli Roth torna sul luogo del delitto, in una cartolinesca Slovacchia tutta feste di paese e bagni termali, e continua la sua opera di tortura nei confronti di giovani vittime e spettatori consapevoli. Il risultato, come già per il primo episodio, ha un suo perché, ma convince solo in parte. L'idea di un'associazione segreta, specializzata nel soddisfare la pulsione omicida di ricchi annoiati, è questa volta maggiormente sviluppata e rende più sostanziosa la critica nei confronti di una società in cui tutto ha un prezzo. Non c'è quindi nulla che non si possa comperare e la vita umana diventa merce di scambio, senza alcun valore che non sia quello economico. Il supermarket dell'orrore imbastito da Roth ha nuovamente una sua grezza efficacia, ma pur nell'innegabile coinvolgimento, l'apprezzabile (ma non certo originale) cinismo è inquinato da qualche luogo comune di troppo e da una sceneggiatura non sempre allineata alla profondità delle ambizioni. Dopo un prologo un po' lunghetto, necessario per spiegare gli antefatti e rendere comprensibile il prosieguo della truce vicenda ai nuovi spettatori (per la verità pochini), si comincia con tre studentesse in vacanza studio a Roma che salgono su un treno con destinazione Praga. Il viaggio infernale, tra tifosi esagitati, ladri e maniaci, esprime chiaramente l'immagine "evoluta" dell'Italia oltreoceano. Si continua, poi, con un est europeo dove un intero paese pieno di facce losche è al servizio, senza troppi ripensamenti, di un'organizzazione votata al massacro (ma la notizia non si sparge? A forza di turisti che spariscono nei pressi di Bratislava nessuno comincia a sospettare?). Approssimazioni geografiche, culturali e narrative a parte, il nuovo capitolo vira al femminile la carne da macello e indaga ciò che nel primo film era solo accennato. Il pubblico ha così modo di conoscere non solo le vittime (la bruttina-romantica, la bella-ma-sciocca e la bella-ma-tosta) ma anche i carnefici, soffermandosi su una coppia di amici alla ricerca di emozioni forti. Il rapporto tra i due avrebbe le potenzialità per essere il punto di forza del film, ma l'interesse delle premesse, per la verità già schematiche, sfuma in una seconda parte iperbolica dove colpi di scena, capovolgimenti delle psicologie e improbabilità a profusione, finiscono per lasciare ancora una volta un retrogusto di plastica. Per tacere dell'ennesima vendetta conclusiva in cui la vittima non trova altra soluzione che usare le stesse armi che rischiava di subire. Tra le tante violenze, più accennate che esibite, a lasciare il segno è il bagno di sangue di un'assetata vampiressa, mentre il superamento di alcuni tabù (l'uccisione di un bambino e una discernibile evirazione) sembra motivato più che altro dalla voglia di "andare oltre" il limite del vedibile. Disturbano di più, comunque, la micidiale asta on-line delle votate al martirio e la terribile offerta, in saldo, di un corpo con ancora una ventina di minuti di vita. Il mare di citazioni, camei, rimandi e riferimenti, manderà in sollucchero il cinefilo (continua a restare un mistero il perché) e non disturberà più di tanto gli altri.

- Eli quali sono i film che ha amato di più di Edwige Fenech ?

- Eli Roth: Trovo Edwige superba, magari tutti gli attori fossero come lei. Dei suoi film ricordo su tutti “Lo strano vizio della signora Wardh”, in cui oltre ad essere giovanissima e bellissima, interpretava un personaggio complesso su più livelli. Anche il film che ha fatto con Sergio Martino mi ha mostrato che è un’attrice capace di recitare in generi diversi e di dare interpretazioni superbe.

- Come è stata l’esperienza di lavorare insieme?

- Edwige Fenech: Mi sono divertita moltissimo. Per tutte le riprese mi ha detto che ero fantastica. La giornata in cui abbiamo girato il mio cameo, l’11 settembre, è andata benissimo, sono tornata ad interpretare dopo anni il ruolo della professoressa. Ho apprezzato questa opportunità è stato un atto d’amore di Eli e di Quentin Tarantino. Mi ha stupito inoltre che un regista così giovane potesse conoscere la mia filmografia. Sono stata molto lusingata.

- Eli Roth: Quando ci siamo incontrati la prima volta abbiamo subito condiviso la nostra enorme passione per il cinema. Così ho deciso di scriverle un ruolo appositamente per lei, un cameo che durasse un solo giorno di riprese. Quello è stato il primo giorno di riprese, in cui si è dato il ritmo al film, il tono alle riprese.

- Ama il genere horror?

- Edwige Fenech: Ho sempre amato il genere horror solo che non riesco a tenere lo sguardo sulle scene splatter. Mi è piaciuto molto “Dal tramonto all’alba”, di Tarantino anche se era un film diverso nel genere, c’era una vena umoristica.

- Qual è l’aspetto politico del film?

- Eli Roth: Mi piace rifarmi ai film horror degli anni 70, che avevano tutti un messaggio politico. Nel mio film voglio fare una critica del capitalismo. In America c’è un’ ossessione tale per il “consumare” che non ci si preoccupa di altro. Questo secondo me non fa altro che incrementare l’infelicità. Quello che voglio descrivere in Hotel II è proprio questo, ma convinzione che più sono ricchi e più sono infelici.

- Nel film c’è una battuta: “Da New Orleans al Ciad tutto si può comprare”.

- Eli Roth: Odio profondamente Bush e la politica che fa a favore dell’industria petrolifera. A causa di questa hanno mandato a morire tanti americani in Iraq e la sensazione orrenda è che oggi negli U.S.A. chi ha i soldi decida chi può vivere e chi deve morire. L’unica ossessione è quella di gestire il potere sugli altri. Quando c’è stato l’uragano Katrina a News Orleans l’esercito americano ha aspettato cinque giorni prima di intervenire. L’atteggiamento avuto dai politici è stato quello di indifferenza solo perché gli abitanti colpiti dalla calamità erano neri e poveri. Nel film ho voluto far vedere come già i bambini sono alla caccia dei soldi. L’esempio che hanno dal capitalismo è che anche la violenza può essere tollerata se serve a fare soldi.

- Come avete reagito alla Frase di Tarantino sul cinema italiano?

- Edwige Fenech: Credo che la battuta di Tarantino sia stata mal interpretata. Credo che, da grande conoscitore del cinema italiano, abbia il rammarico che oggi in Italia non si producono più tanti film come in passato. Bisogna però anche considerare che all’estero i nostri film non vengono veicolati con facilità, quindi l’immagine del nostro cinema per chi osserva da un altro paese può essere quella di un cinema in difficoltà

- Eli Roth: Anche io credo che la frase di Quentin non sia stata letta nel giusto modo  forse non correttamente contestualizzata. Credo però che se le polemiche che ne sono uscite possono innescare un fenomeno di rinnovamento che spinga a migliorare il livello della cinematografia, questa possa diventare un’occasione importante.