TRAMA
1959. Reduce dal successo di “Intrigo internazionale”, non intenzionato ad abbandonare le scene nonostante gli acciacchi dell’età, Alfred Hitchcock trova nuova ispirazione nello scabroso romanzo horror “Psycho” di Robert Bloch, suscitando la perplessità dei produttori, degli addetti ai lavori e anche della moglie Alma Reville. Che ha ben altro però di cui lamentarsi.
RECENSIONI
A.H. I will never be able to find a Hitchcock blonde as beautiful as you.
A.R. Oh, Hitch. I've waited thirty years to hear you say that.
A.H. That, my dear, is why they call me the master of suspense.
Dietro Psycho una storia d'amore. O meglio, il rinnovarsi di una lunga storia d'amore.
Per il suo debutto nella fiction Sacha Gervasi, già sceneggiatore di The Terminal e regista dell'apprezzatissimo documentario Anvil! The Story of Anvil su una band heavy metal canadese, sceglie di narrare, sulla scorta del saggio di Stephen Rebello Come Hitchcock ha realizzato Psycho, il making of del più grande successo commerciale del maestro, tra diffidenze degli studios e scontri con la censura, passandolo al filtro della sua relazione con la moglie e instancabile collaboratrice Alma Reville. Schermaglie, gelosie, ripicche fanno sì che il biopic, parziale in barba all'assolutismo del titolo e cronologicamente limitato all'anno di produzione del capolavoro, assuma per larga parte le forme di una commedia sentimentale. Anzi, per utilizzare l'efficace definizione coniata dal filosofo statunitense Stanley Cavell nel suo saggio Pursuit of happiness, di una "commedia del rimatrimonio" in cui i due protagonisti, pur non passando attraverso l'esperienza del divorzio come nei titoli presi ad esempio da Cavell [*], riescono a ritrovare la loro unione attraverso un processo di autoconsapevolezza e di riconoscimento delle debolezze e delle necessità del partner. Pulsioni più o meno oscure, brividi dell'anima vengono così assorbiti e incanalati nell'eterno plot della lotta tra i sessi, in una mimesi non si sa quanto pianificata di quelli che sono in fondo i poli della filmografia hitchcockiana.
Coacervo sorridente di atti mancati, freudismi da manuale e repressioni sublimate nella pratica registica (Hitch voyeur indefesso e serial killer potenziale, le foto delle sue attrici gelosamente custodite come i macabri trofei femminili di Ed Gein, l'efferato assassino che ispirò a Bloch il personaggio di Norman Bates e che il regista incontra nei suoi incubi), centone divertito delle ossessioni hitchcockiane come da letteratura sull'argomento, Hitchcock non riesce però, malgrado tutto, a spostarsi più in là del resoconto aneddotico, dei lustrini pop della confezione: godibile ricostruzione d'epoca, fotografia squillante ad opera del fincheriano Jeff Cronenweth, strizzatine d'occhio allo spettatore avvertito, cast da grandi occasioni in gara di mimetismo (tra un Hopkins gigione, oscillante tra caricatura e accenni d'introspezione, e una Mirren brillantemente professionale fanno capolino la disincantata efficacia della segretaria sbozzata dalla sempre ottima Toni Collette e il fragile e seducente candore della Janet Leigh disegnata da Scarlett Johansson). Giusto qualche momento si distacca dalla prevedibilità diligente del meccanismo (Hitchcock che gesticola euforico come un direttore d'orchestra sulle celebri note hermanniane mentre ascolta la reazione terrorizzata del pubblico alla scena della doccia il giorno della prima).
In bilico precario tra l'attrazione à la Madame Tussaud e il tentativo di scandaglio psico-filologico (di un regista, di un uomo e della sua donna, e dei soliti cortocircuiti tra vita e arte), Gervasi si ferma sulla superficie lucida del materiale multistrato a sua disposizione, vorrebbe spingersi oltre ma non si allontana più di tanto dai contorni della celebrata silhouette (che infatti, se si ha la pazienza di aspettare, ricompare alla fine dei titoli di coda). Non è un caso allora che la sequenza migliore si giochi proprio su una superficie, quella della piscina degli Hitchcock: un costume rosso, feticcio che è sfida, rimosso sessuale e affermazione di sé, scalfisce lo specchio d'acqua, frammento quasi "ozoniano" che infrange la compostezza dell'acquario messo in scena.
[*] Nel suo testo, tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi, Cavell prende in esame sette famose commedie hollywoodiane, apparse tra la metà degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta, nelle quali appare il tema delle seconde nozze (opere fondamentali quali ad esempio L'orribile verità di Leo McCarey o Scandalo a Filadelfia di George Cukor). Nello stesso periodo anche Hitchcock ha girato una commedia che può fregiarsi di questa etichetta, Il signore e la signora Smith, del 1941. I protagonisti infatti, interpretati da Robert Montgomery e Carole Lombard, scoprono che per un vizio di forma il loro matrimonio non è più legalmente valido. In conseguenza di ciò il loro rapporto si sfalda, entrambi riprendono a gustare le libertà dei single, concedendosi delle avventure, per tornare infine assieme.
Prendendo spunto dal saggio “Come Hitchcock ha realizzato Psyco” di Stephen Rebello, lo sceneggiatore John J. Mclaughlin ed il regista esordiente Sacha Gervasi (sceneggiatore del The Terminal di Spielberg), si preoccupano di imbastire più una commedia sentimentale fra coniugi che una biografia del grande regista inglese. Il “making of” di Psyco rischia, sovente, di fermarsi all’aneddoto, il copione resta sulla superficie soave e divertita anche nei momenti, in teoria, più drammatici. La vera ragion d’essere dell’opera sono le straordinarie prove degli interpreti: Anthony Hopkins sotto l’ottimo trucco di Nicotero e Berger e, ancor di più, una meravigliosa Helen Mirren che rende giustizia ad una figura co-creatrice troppo spesso dimenticata, ma non da Hitchcock stesso (erano quattro le figure fondamentali nella sua vita: la montatrice, la madre di sua figlia, la sceneggiatrice, la cuoca. Alma Reville). C’è un altro modo di leggere l’opera di Gervasi: si potrebbe pensare che abbia tentato di replicare, applicandole al suo privato, quelle schermaglie di coppia acide, ironiche, amabili che Hitchcock regista prediligeva e che la forma leggera e di mero intrattenimento sia, anche, a specchio di tante pellicole del maestro che cercavano il coinvolgimento-divertimento del pubblico. Rientrerebbero in questa potenziale “politica” anche le notazioni sui “traumi” di Hitchcock, voyeur ritratto a dialogare con una sorta di alter ego criminale e folle, l’Ed Gein che ispirò la figura di Norman Bates. Le opere del regista, però, erano sì “sporcate” con dettagli morbosi-sessuali divertiti, ma con l’enorme differenza che passa da una “pacca sulle spalle” (Gervasi) agli umori sottopelle turbanti-conturbanti (Hitchcock). Da citare la scena della prima del film, dove Gervasi appaia la tensione su grande schermo a quella di Hitchcock che, in sala, osserva le reazioni del pubblico, dirigendo l’orchestra di archi della musica di Bernard Hermann nella scena della doccia.