Azione, Commedia, Noir, Sala

HIT MAN

Titolo OriginaleHit Man
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2023
Durata115'
Ispiratodall'articolo di Skip Hollandsworth
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Gary Johnson è un timido professore di filosofia di New Orleans che lavora part-time come consulente informatico per il dipartimento di polizia cittadino. Un giorno, a causa di una serie di coincidenze, la polizia si trova costretta a chiedergli di impersonare un sicario come parte di un’operazione volta a arrestare chi cerca di assoldare figure del genere.

RECENSIONI

Ogni film di Linklater conserva echi degli stessi nobilissimi interrogativi. Ad esempio: come l’identità sopravvive all’abitudine? Come, negli anni, continuare a corrispondere a sé stessi, ai propri desideri più intimi? Nodi esistenziali che il regista ha sondato con una filmografia nostalgica e adolescenziale, altalenante tra rom-com e sperimentazioni, sovraccarica e minimale, oziosa e ottimista, dall’anima ludicamente sciocca e proprio per questo pensosa, profonda, complessa. Cifre che in Hit Man dialogano sotto l'apparenza classica da frizzante svago visivo.
Tratto da un caso di cronaca, è innanzitutto un film su un ruolo da interpretare: il sicario, un’invenzione cinematografica, espediente narrativo e affascinante archetipo noir, esempio di un cinema svelato come costruzione, svilito in artificio, narrazione replicabile all'infinito. Un sicario da interpretare più e più volte, con costumi diversi, perlustrando, performance dopo performance, l'album di volti post-trumpiani che popolano diner e suburbie.
Il protagonista, come in Apollo dieci e mezzo, School of rock e altri titoli del regista, è un improbabile sostituto, delegato a un ruolo extra-ordinario, incaricato di una missione che sfiora l'assurdo, abc del più coinvolgente dei plot, mantecato nella più avvilente delle consapevolezze: l'esistenza si satura in prestazione ripetuta (sempre diversa, ma sempre uguale), mentre Linklater mette in scena, divertito, la saturazione del cinema, terreno di un immaginario amato e imparato a memoria.

Nel suo coming of age della maturità, monsieur Gary veste artifici del cinema più glorioso, "sacri motori" smessi e smontati, citazioni viventi tra cinefilia, sentimenti post-moderni e cosplaying. La multi-narrazione che in Slacker ondeggiava tra un personaggio e l'altro, si accomoda nella serialità ironica ed eremitica di un uomo singolo dai volti molteplici, mentre il cinema, non più “credibile”, soffoca lentamente, minato nel suo valore di verità, irriso dei suoi vecchi trucchetti, rifratto in variazioni di sé stesso in una scheggia di video-essay.
I sicari non esistono, ma Gary inizia a esistere quando si impegna a essere un sicario. E, nella simbiosi della passione, si tramuta nel freddo, laconico, sexy Ron: antipodico rispetto al timido nerd che era, come al romanticismo sperso e spaesato del più usuale Linklater. Il tono sonnolento, pomeridiano, semi-allucinatorio del primo Linklater, si anima marciando al ritmo di un saliscendi euforico da screwball comedy: un ripetuto, goffo, iperbolico tentativo di omicidio, in cui "la morte è un sogno", paradossale istanza di rianimazione del routinario.
Oltre al sicario, un altro topos cinematografico, questa volta comico: il travestimento - tra Billy Wilder a Chris Colombus -: un erogatore di equivoci e gag che, incontro dopo incontro, affresca il grottesco archivio de "l'eterno mistero della coscienza e del comportamento umano”. E nell’iper-consapevole disillusione verso le abitudini di vita e cinema - schemi da tradire per essere felici -, l'estro della scrittura di Linklater, acuto osservatore del tempo, ha il merito di trasformare il male di vivere in vivace intrattenimento, ma sembra accontentasi della didascalia, della voce narrante il più delle volte ridondante, superflua, al bivio tra io e super-io, tra legge e piacere, tra legalità e manipolatorio invito ad uccidere. Dichiaratamente sottotestuale, la commedia nera si arrende alla teoria del presente: tanto vasta da essere vaga, tanto certa da sembrare quieta: più che un'ossessione, un passatempo che, colto e divertito, sembra ridere del suo stesso scriversi.