Serie TV

HILL HOUSE

Titolo OriginaleThe Hauntig of Hill House
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Numero Puntate10
Sceneggiatura
Tratto daL'incubo di Hill House, romanzo di Shirley Jackson (liberamente ispirato)

La storia di cinque fratelli che, da bambini, sono cresciuti in quella che in seguito sarebbe diventata la casa infestata più famosa del Paese. Ora adulti affrontano i fantasmi del loro passato.

«Capita spesso che ciò che ci fa paura scompaia quando lo capiamo».
(Somnia, Mike Flanagan, 2016)

The Haunting of Hill House, che fa riferimento (senza esserne un pedissequo adattamento) all’omonimo romanzo di Shirley Jackson (da cui fu tratto il capolavoro di Robert Wise Gli invasati del 1963  e il film di Jan de Bont del 1999), come molta parte della filmografia di Mike Flanagan, pone al centro del discorso la galassia familiare. Come nel recente Hereditary di Ari Aster (a cui rimando), quella horror, per Mike Flanagan, è una dimensione fondamentalmente metaforica, il regista ricorrendo al genere soprattutto come armamentario alternativo per illustrare e penetrare ragioni, dinamiche e modalità di gestione del conflitto familiare. Che questa costante poetica sia rispettata anche in questa prima stagione di Hill House (la seconda, a quanto pare, si ispirerà a Il giro di vite di Henry James) ce lo dicono l’inizio e la fine: in essi i flashback, infatti, vanno a posizionarsi chiaramente su un piano di finzione, quello creato da Steven Crain, il romanziere che ha scritto, attorno alla sua vicenda familiare e al traumatico episodio del suicidio materno, una saga letteraria.
Il primo episodio comincia con la sua voce fuori campo: quello che ascoltiamo è l’incipit del suo libro e quella che vediamo, dunque, non è affatto la rievocazione dell’accaduto, ma la sua reinvenzione romanzesca. Di indizi, in tal senso, la serie è disseminata, ma la prima puntata risulta già illuminante sulla questione: se, come si dice, «i sogni straripano, i traumi straripano», allora sogni e traumi diventano parte del costrutto narrativo, lo connotano, lo significano, ne costituiscono leit-motiv e ne forniscono la chiave di lettura. Così Hill House non è una casa stregata, è un luogo simbolico che contiene i fantasmi familiari, che, enfatizzati dalla scrittura di Steven, si sintetizzano in immagini terrorizzanti. La prima puntata ci presenta Crain – che ha ricavato fortuna e fama dalla commercializzazione della storia familiare – come una persona scettica: esperto di situazioni paranormali, afferma placidamente di non aver mai incontrato un fantasma in vita sua e smonta le teorie di coloro che sostengono di vederne. A Irene – la donna che lo invita a casa sua per valutare l’effettività di certe “presenze” – dice «Ogni cosa che reprimiamo riemerge di notte. I fantasmi hanno tante forme: di un sogno, di un ricordo, di un segreto. Lutto, rabbia, colpa. Nella mia esperienza rappresentano quello che vogliamo vedere».
Steven Crain se ha reso Hill House «la casa infestata più famosa d’America», guarda alle sue vicende familiari in termini razionali e positivisti, sottintendendo che quello paranormale è un filone che ha assecondato per puro interesse. E infatti accetterà di scrivere la storia della casa di Irene pur avendone smontato, con argomenti persuasivi, la teoria della possessione. Flanagan, insomma, in Hill House sembra pervenire al finale denudamento teorico del suo metodo: come Steven Crain col suo romanzo, il regista ha sempre convertito la rappresentazione realistica in un teatro dell’orrore in cui la patologia e la disfunzionalità del nucleo familiare assumevano vesti orrorifiche. 

Oculus, 2013

Oculus (2013, remake di un suo corto del 2006) presenta, come Hill House, la storia di una famiglia distrutta da un evento violento, come in questo caso segnato dalla follia, sulla cui dinamica si oppongono due fronti: quello dell’argomentazione razionale, sostenuto del fratello, e quello che riconduce l’accaduto al soprannaturale, portato avanti dalla sorella: la ragazza attribuisce ogni responsabilità a un’ipotetica forza paranormale residente in uno specchio. Come accade in Hill House i due livelli si confondono al punto da non comprendere più dove inizia l’uno e dove finisce l’altro, e, come nella serie di cui trattiamo, il passato si sovrappone al presente, in una coesistenza nella quale i protagonisti adulti guardano agire loro stessi bambini.
L’argomentazione del fratello, in Oculus, fa eco perfetta con quella di Steven Crain: «Ho imparato molto su ciò che succede quando le persone non riescono a elaborare qualcosa di orribile. La mente crea ogni sorta di protezione per negare quegli eventi e una volta che quelle convinzioni si radicano, la mente coglie informazioni casuali per sostenere le proprie teorie».

Somnia, 2016

In Somnia (2016, a oggi capolavoro cinematografico dell’autore) il dualismo tra razionalità e paranormalità poggia sulla patologia del sonno e sulla sua privazione, con tutte le derive allucinatorie del caso. Anche in questo caso c’è una felicissima sovrapposizione tra passato e presente (con tocchi di intensità – azzardo – tarkovskiana). E anche in questo film incontriamo un personaggio che spiega, in termini logici, fenomeni che sono considerati dalla protagonista come manifestazioni paranormali. Il coordinatore del gruppo di sostegno le dice: «La domanda chiave è: cosa stai cercando di dire a te stessa?».
Anche nel suo primo lungometraggio Absentia (2011) l’ambiguità regna sovrana: non appena la moglie fa proclamare la morte presunta del marito scomparso, cominciano gli incubi e le visioni. Anche in questo caso c’è un medico, che impersona la scienza, che dà una spiegazione razionale alle allucinazioni legandole al senso di colpa: «A volte è più facile creare qualcosa che aiuti la mente a metabolizzare il processo».
Da sempre insomma (Ouija, 2016, è un altro film che si pone dichiaratamente in bilico tra normalità e paranormalità, con il confronto diretto di tesi opposte che si rifanno all’una e all’altra) il discorso per Flanagan verte sulle rimozioni interiori, sulle emozioni irrisolte, sul subconscio e sul modo in cui questo fa riemergere i traumi, anche in veste patologica [1].

[1] Fa apparente eccezione Hush (2016), uno slasher movie che suona come un’acuta variazione di Gli occhi della notte di Terence Young (lì la donna nella casa assediata è cieca, qui è sordomuta). Apparente perché, a guardar bene, Flanagan insinua che tutto il discorso narrativo si vada a collocare sul piano dell’invenzione letteraria (la protagonista è una scrittrice alle prese con la tormentata conclusione del suo romanzo), il che crea il consueto duplice livello. E un collegamento diretto con la serie di cui ci occupiamo.

Alla luce di queste premesse la serie The Haunting of Hill House va letta come un lungo dramma familiare (una specie di Le correzioni di Jonathan Franzen in chiave horror) che inanella almeno tre livelli di rappresentazione e nel quale non è la suspense l’ingrediente fondamentale, ma il dialogo e il conseguente svisceramento dei motivi che hanno portato la famiglia protagonista al collasso. La lentezza del ritmo (di cui molti si sono inopinatamente lamentati) è il risultato di una scelta precisa, quella dell’impostazione teatrale che si è voluto conferire al racconto. E infatti gli elementi horror sono inseriti nel costrutto non tanto per creare tensione, ma per sottolineare una pressione che già trasuda dai fatti, rifacendosi spesso a meccanismi e situazioni uguali e ricorrenti (le apparizioni notturne, le presenze incombenti accanto al letto): standard molto riconoscibili, volutamente classici, essendo archetipici gli stessi motivi psicologici che vanno a rappresentare. La decodifica è ancora una volta offerta in termini chiari (se si è disposti a coglierli, ovviamente): il mostro che appare alla piccola paziente di Theo, un’entità che la ragazzina chiama Mister Sorriso [2], si scopre non essere altri che il padre molestatore. Così Nell, che vede La Donna Dal Collo Storto, va in terapia  per episodi di paralisi ipnagogica. Ma anche quando non viene esplicitamente suggerito, i fatti paranormali possono essere sempre ricondotti a cause naturali.

[2] Impossibile non connetterlo al Signor Cancro di Somnia, il mostro che tormenta il piccolo Cody e che è legato al trauma della visione della madre devastata dalla malattia.

Come i due livelli, quello realistico e quello orrorifico-metaforico, si compenetrino, lo dice la sesta puntata. Quello che potrebbe apparire un semplice virtuosismo registico, a conti fatti, si rivela una soluzione piena di senso, giustificata dalle premesse teoriche su cui l’intera serie si fonda: i cinque lunghi piani-sequenza che connotano l’episodio fanno convivere i due suddetti livelli nella messa in scena, in una narrazione per immagini che ibrida in presa diretta passato e presente, realtà e simbolo. Un gesto tecnico che si traduce in un continuum che associa tutte le componenti (realtà, ricordo, deformazione, allegoria) in un unico “palcoscenico” e che sintetizza mirabilmente l’approccio che si è voluto dare a questa saga familiare, inscrivendo le figure orrorifiche in una dimensione quotidiana, concreta. I piani-sequenza sono cinque quanti sono i membri della famiglia superstiti, (nell’occasione del funerale di Nell, finalmente riuniti), a rendere ciascuno un punto di vista. È una scelta programmatica che riguarda l’intera serie che tende a concentrarsi, in ciascun episodio, su un singolo Crain: mantenendo fermo il parallelo dipanarsi della vicenda familiare, Flanagan la illumina da prospettive diverse, che a volte pervengono a conclusioni dissimili, alimentando l’ambigua lettura delle vicende. È proprio attraverso questa molteplicità di sguardi e di voci che si decide di rappresentare il nodo della storia, ovvero la proliferazione del male dalle radici ai giorni nostri, secondo quello stesso concetto di ereditarietà (umanissimo, non certo metafisico) che era alla base del film di Ari Aster (a cui, di nuovo, rimando).

Insomma La Casa Infestata non è altro se non La Famiglia e la maledizione è la condivisione forzata di questa situazione: il che spiega per quale motivo Hill House (materialmente prima del suicidio materno, idealmente dopo) non venga abbandonata al suo destino: la magione non è mai stato il problema, semmai l’ha rappresentato. Perché quelle mura simboleggiano la protezione, la sicurezza, quella che i genitori cercano più di ogni altra cosa per placare la preoccupazione sulla sorte dei loro figli. Perché – eccolo il punto – i coniugi Crain sono innanzitutto genitori apprensivi, come ci svela, da subito, la prima puntata: il marito ritorna nella camera matrimoniale dopo aver consolato la figlia spaventata dall’ennesimo incubo; la moglie, una volta che l’uomo è rientrato nel letto, gli chiede se i figli siano ancora tutti vivi. Quella che sembra una battuta innocente, in realtà costituisce il campione di un lessico familiare allarmante (e allarmato), confermato dallo sviluppo dell’intreccio che rivelerà la madre come l’unico vero pericolo (quella che ho definito madre-mostro e di cui parlo qui), come una persona che ha il terrore del distacco dei figli, che li vorrebbe sempre accanto a sé, eterni bambini, perennemente sotto la sua ala e che per questa ansia di sorveglianza e cura, amplificata dal disturbo mentale, li renderà persone insicure, fragili, non autonome o autonome per eccesso di reazione, fino all’estremo folle di volerli uccidere per controllare anche il loro destino finale, per farli scampare a quello che è il suo timore più grande: quello di una disgrazia casuale. Da quella follia il padre [3] cerca di tenerli lontani, negando l’evidenza, rinchudendosi in un silenzio che diventa un altro mostro, perché riempito di supposizioni, ipotesi, dubbi che degenerano in ossessioni. In veri e propri spettri: instabilità sentimentale, anaffetività, indecisione, mancanza di autostima, incapacità di gestire le situazioni. Un peso che ogni figlio elaborerà a suo modo: Steven razionalizzando e inscenando il teatro familiare in una docufiction horror, Shirley confrontandosi quotidianamente con la morte nella sua attività tanatopratica, Theo divenendo terapeuta infantile, i gemelli scivolando nella depressione e nella tossicodipendenza.
Un quadro cui Flanagan conferisce una scrittura solidissima e soprattutto, mai concessiva nei confronti del genere (e del pubblico, di conseguenza), essendo l’autore sempre pronto a porla al servizio delle ragioni drammatiche che, mai come stavolta, vengono palesate come dominanti.  

[3] Timothy Hutton, che ricopre il ruolo del padre in età matura, mi suona come presenza  quasi simbolica, essendo l’indimenticato protagonista del film familiare americano per eccellenza Gente comune.

Voto: 8.2