TRAMA
Un gruppo di criminali condannati a morte viene spedito nello spazio per una missione impossibile, in direzione di un buco nero. A bordo c’è una dottoressa con un chiodo fisso: far nascere un bambino sano attraverso l’inseminazione artificiale. Per attuare il proprio piano, la donna sfrutta i detenuti sulla navicella. L’unico a rifiutarsi di sottoporsi al suo trattamento è il solitario Monte.
RECENSIONI
Dagli interstizi, le ellissi, l'incedere ipnotico di High Life inesauribili connessioni narrative, tematiche e sensoriali affiorano, rimandando ad altro. Come squarci su un universo, su una vita, su un cinema paralleli, come ponti da intercettare e da percorrere. A partire dalla natura in cattività che apre il film: apparenza di libertà primitiva, di ancestralità che richiama per qualche istante il principio di Solaris, per poi tradire il proprio abbaglio di realtà (quel giardino segreto è ricostruzione, finzione, breve bugia: high lie?). O passando per un cacciavite che, crollando nello spazio, evoca un cuore umano inghiottito dall'abisso di un pozzo, e che chissà, potrebbe atterrare nella neve come quello nancyano di L'intrus...
Rimandi, echi, restituzioni. Repliche. In High Life, Monte (un Robert Pattinson che fa di lineamenti imperturbabili e attonita fissità virtù espressive e geografia dell'astinenza emotiva) è l'ultimo uomo su una falsa Terra, su un suo scarto, ma la staticità granitica lo fa apparire a sua volta meno che umano, quasi una riproduzione (quasi una Hari: e porta, come lei, cicatrici sul braccio). Un emulo robotico, una vita altra, high: una vita (s)fatta, allucinata, immaginaria, copia della copia della copia di tanti viaggi nello Spazio, di conflitti ed eroismi antecedenti, dei quali si fa annullamento e negazione, come il film di cui è indifferente protagonista.
Monte non ha, e attorno a lui non c'è, più niente da scoprire all'infuori del vuoto, dell'oblio. La navicella che abita è infatti un bassifondo cosmico, il cui mortifero nostos ammutolisce il dialogo con i propri illustri precedenti: destinazione wormhole, è luogo di un ergastolo definitivo, di una non-vita più lunga di miliardi di altre, senza più nulla del tempo e dello spazio di chi abita la Terra. Mentre lo Spazio, con la sua S maiuscola e perentoria, l'ultima Frontiera, non abilita sogni di gloria né visioni di grandezza, non concretizza pirotecniche fantasie né battaglie extra-ordinarie, non definisce Bene (quaggiù) e Male (lassù, o viceversa), non evolve il pensiero né la conoscenza, non si configura come territorio colonizzabile dalla mente umana e modellabile sull'impossibilità individuale e collettiva di accettare la morte e dunque propagarsi, contagiare l'infinito, perpetuare la propria traccia, ereditare quell'immensità. Semmai è la forma ultima di una zona carontiana, una tomba in divenire, l'espressione di una coscienza-cinema che tira i remi in barca e sospira di stanchezza, di un'immaginazione che sente d'aver abbattuto ogni confine di rappresentabilità (e sognabilità, e cinematografabilità) e improvvisamente guarda all'Ignoto Spazio Profondo come a un Altrove di assenza: l'unica possibile e ambita sembianza di eternità dell'uomo corrisponde qui a una punizione temibile, a una modalità di giustizia che depriva di qualunque impronta d'umanità. Anche visivamente: il digitale, che Claire Denis sfodera per la terza volta (la prima è stato Les salauds, altro gelido e atroce ritratto in distorsione dell'oggi), rinunciando peraltro al calore della DOP di fiducia Agnès Godard, è in High Life esemplare dimensione cinematografica di questa assenza, della sottrazione di impressioni fisiche, del sentimento viscoso della carne.
Piallando, lucidando, eliminando le imperfezioni, esso porta alla luce ogni cosa nella sua definitezza massima e decrittata, spoglia di ogni segreto, piatta, lucida, talmente vera da sentirsi falsa, all'ultimo grado del visibile, prigione di corpi che non hanno più alcun mistero da svelare o da scovare dentro le proprie e le altrui epidermidi. Un percorso suadente ed elettrico come quello intrapreso da Valérie Lemercier nello splendido Vendredi soir sulla carne di Vincent Lindon, sui lacerti del suo corpo, sulle vibrazioni tattili fra sé e l'Altro, o una ballata sgraziata sul proprio travaglio interiore dissociato come quella performata dal Denis Lavant di Beau travail, non sono più possibili. L'Altro è trasparenza, è nulla. Come il Sé.
Denis qui opera a distanza dalla posizione di prossimità fisica del suo cinema, un cinema che ha sempre riguardato l'esperienza del corpo dell'altro, la sua ricerca e il suo conoscimento, la convivenza, la conflittualità; è attraverso quest'esperienza che l'autrice praticava quella che definisce l'attività dei filosofi, l'apertura «di porte in cui tu puoi introdurti senza sapere come chiuderle» fornendo così a chi guarda «la possibilità di andare avanti nell'ignoto» (come dichiarato nell'intervista intima e fluviale con Pier Maria Bocchi e Luca Malavasi in Claire Denis [1], pp. 70-71). Per Denis il cinema è una questione di al-di-là, di inconosciuto, una questione di intrusioni ed emulsioni cutanee; la ricerca di un assorbimento sconfinato, che viene messo in moto da uno sguardo registico in sé già intriso di molteplicità, di moltitudini in azione e in dialogo complesso (l'Africa e l'America, i neri e i bianchi, i vivi e i morti...), però mai schematico né assegnabile a una lettura univoca, mai partitico. Le sue pellicole sono un'esperienza di continua metaformizzazione, di cangianza pulsionale: Trouble Every Day, mélo densissimo di orrori del cuore, in cui l'incontro e lo scontro fra corpi si manifestava in uno stimolo cannibalico, in un requiem disperato, scevro da tesi e ragioni ma frammentato in bagliori di senso perturbanti (divorare l'Altro per contenerlo, farsi Altro), era la massima espressione di questo dualismo, di questo cinema sensoriale in cui non si può stare comodi, in cui non si può davvero vedere chiaramente tra i sussulti della pellicola.
Al contrario, il digitale è uno, unidimensionale, piatto, esiste senza opposti, tirannicamente; ed è dunque per Denis un imprescindibile fatto narrativo (come lo era per il Cronenberg di Cosmopolis con il quale High Life condivide Pattinson, ancora volto di un collasso sistemico): così, da una parte la pellicola, l'analogico, esistono letteralmente in quanto altro mondo, altra vita, un passato, «un virus» della Terra; mentre, dall'altra, lo Spazio digitale si definisce come ciò che ci rimane, uno sguardo in HD veicolo attraverso cui i resti dell'umanità contemplano il vuoto. Nella maniera dell'occhio dell'autrice: fermo, glacializzato, imploso.
[1] Claire Denis, a cura di Pier Maria Bocchi e Luca Malavasi, Edizioni di Bergamo Film Meeting, 2009, pp. 96
Allora la storia di Monte, partendo da un concetto di Spazio e di Immagine come morte e assenza, da una onnicomprensiva sterilità, da una stasi dell'interiorità, non può essere movimento verso l'esterno, emersione, quest, ma sarà alla fine un risveglio, un ritorno. All'essere umani, al vedersi ed essere rappresentati e filmati come tali. Concetti, questi, che nei film di Denis si sono quasi sempre realizzati tramite l'atto sessuale: il sesso è per la regista strumento di lettura, di processo cognitivo, di trasmutazione verso un territorio/fisicità sconosciuta (indimenticabile, osceno, dolcissimo il momento in cui Boni fa l'amore con la pasta, manipolandola e carezzandola, sublimando e trasferendo nelle mani e nel cibo ancora informe lo slancio pulsionale per la panettiera Valeria Bruni Tedeschi, in Nenette et Boni).
In High Life questa tensione erotica si manifesta però come modalità ritualistica, anodina, e soltanto in un unico momento è inaudita concessione metafisica, onirica: di questa concessione, di questa magia, di questa anomalia s'impossessa Dibs/Voltura/Juliette Binoche, in una sequenza turbinosa e folgorante all'interno di una stanza delle meraviglie buia, una camera oscura. Lei è una Circe con capelli lunghissimi e serpentini da strega delle favole, da tentatrice, che come modus vivendi nella navicella dell'espiazione ha scelto una missione prometeica, far nascere (e sopravvivere) un bambino, prendendo a prestito gli apparati inutili dei penitenti, per fare ammenda al proprio peccato e crimine originale (l'omicidio di marito e figli). Medea e fattucchiera, Voltura è l'elemento che ammanta High Life di un contorno ulteriore, fiabesco: ci sono un incantesimo da realizzare, un angusto castello preda di una maledizione (come quello della Bella Addormentata: tutti i carcerati sono come dormienti, rinchiusi nell'impietrimento sonnambolico dei condannati). E poi c'è un principe prescelto: Monte, l'unico ad abdicare eroicamente alla funzione riproduttiva, e una principessa ribelle, Boyse/Mia Goth, che rifiuta il meccanismo, e il cui corpo è in rivolta... Da queste due nullità, dal loro continuo sottrarsi, da questi due meno nasce un più. Un'invasione imprevista, un problema, un movimento: una neonata (la prescelta, Willow: nome magico, nome arboreo) che fa definitivamente saltare gli equilibri principali, Alien portatrice di vita anziché di morte, la cui presenza estranea e vitale non può che scombussolare e distruggere l'equipaggio catacombale. A eccezione di quel fantasma, quel vuoto che è Monte, il genitore biologico, che soltanto nel finale comincia per davvero la propria space oddity: sulle macerie di un racconto ridotto all'essenziale e all'atavico (uomo e bambina, padre e figlia), in una fiaba finalmente tale, e cioè senza più sesso né morte (e dopo aver incrociato un'alternativa horror, più scopertamente allegorica, del viaggio sci-fi: quella navicella sfiorata che è un'altra prigione, un canile abbandonato, la porta su un incubo di Monte, un détournement). Ma, per l'appunto, a Denis non interessano i codici ordinati dei genere, guarda piuttosto al loro scorporarsi, sfumarsi rapsodicamente. Li aggrappa all'umano, come detto. Quindi, ferma la sci-fi appena un attimo prima del suo determinarsi, del suo aprirsi più istituzionalmente; guarda saltare (à la Thelma & Louise, volendo: non ci sono limiti alle connessioni, ai ponti tracciati da Denis...) padre e figlia nella direzione di un nuovo livello di realtà, di una anti-Melancholia (anche Von Trier abita qui: pensiamo all'afroamericano Tcherny si scioglie nel verde come la Charlotte Gainsbourg di Antichrist, che visualizzava una natura estrapolata dal tempo e dal mondo civilizzato dall'uomo, un Eden purgatoriale, spezzato anche in quel caso dal pianto di un bambino).
Quella luce in cui Monte e Willow camminano è un nuovo battesimo (ultra)terreno, di carattere heideggeriano: che abbraccia, liberatorio, un abbandono esistenziale pieno di futuri, volto all'orizzonte più infinito, che non è quello della Terra, ma semplicemente uno condiviso; all'Ignoto Spazio Profondo che sta dentro di sé, nel verso di un sentimento finalmente scoperto. E proseguito, sui titoli di coda, dalla voce di Pattinson stesso, che canta dell'amore fra Monte e Willow. Tutto ciò che rimane è finalmente tutto ciò che importa: un movimento autentico, uno sguardo, un accenno luminoso per riscoprirsi umani, per sapersi infine umani, e insieme.