
TRAMA
Un terreno preistorico, e la casa che sorgerà su quel terreno. Quella casa ospiterà generazioni di famiglie, dagli homini sapiens agli indigeni ai coloni, fino ad un nucleo domestico afroamericano contemporaneo. E nel salotto di quella casa scorreranno vite sempre diverse.
RECENSIONI
Qui. Ora
L’universo in un volto. Tutto Here racchiuso in un'unica inquadratura. Un intero film che collassa nel deepfake di Tom Hanks ripreso di tre quarti mentre guarda verso il fuori campo, in qualche punto non precisato del salotto della casa della famiglia Young ma anche oltre essa, verso ulteriori, infiniti presenti, passati e futuri possibili. Penso non ci sia modo migliore per parlare del capolavoro (diciamolo…) di Robert Zemeckis che cercare un punto di convergenza dello spazio-tempo ulteriore rispetto a quello dell’unico punto macchina (almeno fino alla sequenza finale) in cui si articola il film, adattamento del fumetto Here di Richard McGuire, pensato e trasposto con la stessa idea di messinscena: rappresentare gli eventi avvenuti e che dovranno ancora avvenire in un preciso punto cardinale e adottando la stessa prospettiva. Non c’è modo migliore perché la coordinata cinematografica da cui parte questo articolo, il volto di Hanks, ci permette di inquadrare tanto il film quanto un’intera filmografia, e perché dentro questo primo piano si concentrano le ossessioni di una carriera intera: la trasformazione del volto attoriale che passa dal compositing digitale di Forrest Gump, per il 3D di A Christmas Carol fino alla motion capture di Polar Express; la deformazione del tempo della trilogia di Ritorno al futuro, di Contact e persino di Cast Away (dove l’isolamento spaziale dava vita a una sospensione temporale); l’ibridazione, mutazione o corruzione dei corpi attoriali grazie alle nuove tecnologie: i già citati A Christmas Carol, Forrest Gump e Polar Express ma anche la CGI di La morte ti fa bella – il più cronenberghiano dei suoi film –, La leggenda di Beowulf, Le Streghe ecc. fino arrivare a Here. Fino ad arrivare qui. Ma qui dove, precisamente? Da nessuna parte, e quindi dalle parti dell’intelligenza artificiale. Una tecnologia, un organismo che, attraverso la rielaborazione del nostro passato mediale (i grandi dataset usati per addestrarla), promette l’istantanea realizzazione di ogni futuro possibile: da quelli fantascientifici degli Asimov, dei Dick, dei Lem (IA cosciente, automi, robotica) agli oracoli più banali degli algoritmi predittivi, in grado di ipotizzare con incredibile precisione le fluttuazioni di mercato, i goal di un centrocampista, il prossimo terremoto. L’IA è una tecnologia per l’accelerazione basata su un cortocircuito spaziotemporale e Zemeckis, da sempre regista-pioniere della sperimentazione tecnologica, spinge ancora una volta il cinema oltre i confini del visibile e riporta l’IA al centro del dibattito con una nuova operazione teorica radicale: per ritrarre sul grande schermo il capolavoro a fumetti di Richard McGuire (1989) il regista ha scelto di affidarsi a una rete neurale prodotta da Metaphysic, studio di VFX specializzato in face-swapping, per ringiovanire digitalmente Tom Hanks e Robin Wright in varie epoche della loro vita di attori e di personaggi. Se ne ricava un loop paradossale che cambia drasticamente il rapporto dell’interprete col suo stesso corpo: durante la produzione del film Hanks e Wright hanno recitato “dialogando” con il proprio volto ringiovanito, adattando le movenze del proprio corpo ai sé che furono. Zemeckis e Miramax portano così alle estreme conseguenze, nel contesto di una grande produzione hollywoodiana, il futuro degli “attori in deepfake” già ipotizzato dal MIT col corto In Event of Moon Disaster nel 2019, quando Francesca Panetta e Halsey Burgund mettevano in scena un’ucronia in cui l’allunaggio avesse avuto esito tragico, riportando digitalmente in vita Richard Nixon con un deepfake, affinché l’ex Presidente degli Stati Uniti potesse leggere il discorso reale da lui scritto per l’eventualità. Come si diceva, l’IA, allenata su un archivio di immagini dei due interpreti, ha consentito un de-aging plurale (non fotorealistico ci dicono i pervertiti della verosimiglianza, ma questa considerazione lasciamola a loro), un face-swap poi sorvegliato in tempo reale dal regista e dagli attori, permettendo a Zemeckis di modulare l’illusione a piacimento e agli attori di osservare il proprio doppio passato, sincronizzando la recitazione con le proprie versioni più giovani. Questa sperimentazione senza precedenti ha suscitato reazioni contrastanti: ad esempio Lisa Kudrow (Phoebe di Friends) ha espresso preoccupazione per il futuro degli attori emergenti, temendo che questa tecnologia possa compromettere le opportunità di ingresso al mercato del lavoro per le nuove generazioni. Difficile però imputare a un grande regista l’audacia di addentrarsi in un progetto formale così avanguardistico da riuscire a trasporre il fumetto epocale di McGuire nel dispositivo cinematografico con un lavoro altrettanto importante, al contempo aggiornandolo a una riflessione sul mezzo. Un’unica inquadratura fissa, un’unica stanza, uno spazio che diventa contenitore di eventi, ricordi, drammi, emozioni: di umanità, insomma. L’intuizione dell’opera originale – in cui le vignette si sovrappongono come finestre su epoche distanti – trova nella regia di Zemeckis una corrispondenza perfetta: una messinscena iper-digitale che dialoga con la camera fissa del cinema delle origini, usando l’IA come mezzo per far convivere teoricamente e praticamente questi spazi. Gli algoritmi di apprendimento automatico come mezzo per riflettere, ancora una volta, sul cinema come grande illusione. Here come camera di sorveglianza sul tempo in cui lo spettatore è chiamato a orientarsi, muovendosi in ogni riquadro, sporgendosi ogni volta su una diversa finestra affacciata sul mondo. La finestra sul cortile del tempo. E alla fine, quando la macchina da presa cambia prospettiva nell’ultimo piano sequenza, ponendo una distanza drastica tra il film-qui e il film-dall’altra parte dello sguardo, tra il fumetto e lo schermo, Here sembra suggerirci un dubbio: se il cinema è una memoria artificiale, se il suo sguardo può essere qualsiasi sguardo, e se può dare vita a qualsiasi spazio, dov’è qui e dov’è altrove?

Botta...
Robert Zemeckis è sicuramente un regista peculiare tendente all’unico nel panorama, diciamo, contemporaneo (tenendo comunque presente che si tratta di un ultrasettantenne che fa film da quasi cinquant’anni). Chi, come lui, può vantare una filmografia che tiene i piedi nelle staffe del mainstream (ultra)popolare così come in quelle del cinema sperimentale, con continue ed esibite ricerche tecniche e tecnologiche? A volte sbilanciandosi sul versante pop come in Ritorno al Futuro, altre su quello, etimologicamente parlando, avanguardistico, come ne La Leggenda Di Beowulf, sorta di fredda tech demo che mostrava un ipotetico cinema del futuro, in cui tutti gli attori del presente e del passato sono a disposizione, dematerializzati in Hard Disk da diversi terabyte (o petabyte, ma non suona benissimo, in italiano). Altre volte ancora facendo convivere le due idee di cinema in una staffa sola, come in Chi Ha Incastrato Roger Rabbit. O in questo Here qui. Film/sfida incentrato su (o asservito a?) un’idea – peraltro non sua – che cerca evidentemente di coniugare tecnica, stile e cuore. Inquadratura fissa su un profilmico cangiante e parcellizzato, in cui si alternano diacronicamente, spesso quadro nel quadro nei quadri, vicende che coprono un arco temporale di milioni di anni, dal mesozoico al giorno d’oggi. Zemeckis si autocita spesso, a partire da una scelta attoriale fondante: i protagonisti sono Tom Hanks e Robin Wright di Forrest Gump, che tornano ad accompagnarci lungo la storia americana non più “di corsa” ma immobilizzati nel totale fisso di un salotto. Sono loro, certo, ma opportunamente de-aged alla bisogna per la maggior parte del tempo, perché c’era bisogno(?) proprio di loro e allora la tecnologia ci soccorre (e si torna, in un certo senso, a Beowulf, altra autocitazione trasversale e intermediale).
Quella dei coniugi Young è, quindi, la vicenda principale, alla quale se ne alternano altre invero non molto organiche e/o significanti (al che ci si chiede, timidamente, “perché?”), caratteristica che si ritrova anche, in altre forme, nella fonte a firma Richard McGuire. Perché, sì, come già accennato, l’idea risale al 1989, sei pagine poi dilatate anni dopo in un romanzo grafico da 304 (2014) ulteriormente rimaneggiato (in senso buono) in forma di e-book interattivo. Un “fumetto” sicuramente originale e interessante che però un profano (spoiler: sto parlando di me) potrebbe trovare disorientante e, smaltito l’effetto iniziale dell’unico punto di vista, faticoso da leggere. Si arriva quindi all’ultima pagina, quando il cerchio temporale si chiude (siamo partiti e torniamo nel 1957, anno di nascita di McGuire), sul filo di una ammirata noia. Ma poco importa. Se ne apprezza comunque la radicalità, la coerenza e l’idea è talmente forte da bastare a se stessa, senza bisogno di venire troppo incontro al fruitore con una narrazione forte e/o sentimentalmente orientata. Ecco, Zemeckis ha preso, pari pari, quell’idea visiva e strutturale e ne ha fatto un film che però, comprensibilmente, non ha la radicalità e la mancanza di compromessi della fonte. Here (film) ci vuole anche emozionare alla vecchia maniera, è evidente. Si concentra sulla vita di Richard e Margaret in un crescendo emotivo che culmina con l’espediente/ricatto dell’alzheimer, con un dialogo finale che però sa di troppo costruito, intenzionale e meccanico (oltre che prevedibile) per emozionare davvero, accompagnato dall’ipotetico corrispettivo relativo/emotivo linguistico, ossia il primo, unico e ultimo movimento di macchina del film, a mostrare un controcampo negato che però non svela niente di particolare o decisivo (se non che la casa è grande e non si capisce perché tutti passassero la maggior parte del tempo in quel salottino).
Cercando di tirare le somme: lode a Zemeckis che cerca sempre e comunque di fare qualcosa di interessante, nuovo e rilevante (a più livelli). L’idea/sfida, però, stavolta non solo non è sua ma è realizzata in modo molto freddo e controllato eppure poco organico (le storie collaterali lasciano spesso indifferenti e sembrano esserci solo perché devono esserci) e anche poco rigoroso, essendo in parte contraddetta da una preannunciata svolta (melo)drammatica finale che si lascia fagocitare dall’idea, condividendone la meccanicità e la freddezza. Il risultato della sommatoria delle sue parti è che Here non è abbastanza “sperimentale”, non è abbastanza “tradizionale”, non è abbastanza “freddo” e non è abbastanza “caldo”: Here è un po’ di tutto ma, dispiace quasi dirlo, finisce per essere, se non niente, davvero poco, e comunque non abbastanza.

... e risposta
Il sempre acuto Gianluca Pelleschi conclude la sua su Here in maniera lapidaria: “Il risultato della sommatoria delle sue parti è che Here non è abbastanza ‘sperimentale’, non è abbastanza ‘tradizionale’, non è abbastanza ‘freddo’ e non è abbastanza ‘caldo’: Here è un po’ di tutto ma, dispiace quasi dirlo, finisce per essere, se non niente, davvero poco, e comunque non abbastanza”. Permettendomi con rispetto di parafrasare, secondo Pelleschi il problema di Here sta nel suo assurgere a qualcosa di più per poi schiantarsi in quella che è l’operazione fine a se stessa. Il rischio c’è, ma proverei ad articolare una breve difesa.
Here è inevitabilmente un film teorico. Di teoria del linguaggio cinematografico. Dopo l’inciampo imperdonabile (ma che perdoniamo) di Pinocchio (e per certi versi de Le streghe), il Nostro torna decisamente sui binari cui ci ha abituati nel corso della sua quasi cinquantennale carriera. Con lui il sodale Tom Hanks, per un film che ci costringe violentemente a rivedere i nostri esempi quando si parla di prospettiva monopuntuale, di split screen, di divergenze e convergenze nella dicotomia tempo del racconto vs tempo della narrazione. Here fa piazza pulita, (l)ambisce il/al ruolo di case study, a farsi esempio perfetto per un manuale di cinema contemporaneo. Qua sta il senso della summenzionata operazione, che se solo tale fosse allora risulterebbe quantomeno arida (dunque, seguendo la proposta pelleschiana, non abbastanza “fredda”).
Ma io ci ho visto qualcosa di più, o meglio di diverso. Qualcosa che fa del film non un asettico esempio di cinema concettoso (volendosi concettuale), ombelicalmente ripiegato su stesso, da studentello del DAMS alle prime armi e rigorosamente con l’eskimo. Ci ho visto – me rendo conto, è stucchevole – cuore (sempre pelleschianamente, e sinestesicamente, ci ho visto “caldo”). Ci ho visto cioè il tentativo, questo sì radicale, di fare cinema sperimentale senza dimenticare che si sta facendo cinema, e che a farlo è Zemeckis (che in questa formulazione immagino dunque parlare con se stesso in una sorta di elegiaco soliloquio filmico). Perché Here, sic stantibus rebus, è un film che come in tutta l’opera zemeckiana tracima di un misto un po’ patetico di buono e agrodolce, aggiornato ora a un autobiografismo consapevole del tempo che passa, inesorabilmente. Compreso il remissibile kitsch di Forrest Gump (film che non ho mai amato), intrecciato con una sorta di rassegnazione di fondo che permea le vite imperfette messe su schermo, fatte di sogni e ambizioni infranti, ma comunque ancora sensate abbastanza da essere vissute e vedute. Zemeckis con Here conferma, in effetti, una certa visione della vita, propriamente cinematografica, patinata ma pure realista, a tratti commovente, in altri momenti fanciullina e sopra le righe (i dinosauri, Ben Franklin, l’inventore). Tutto nello spazio asfittico di quella singola inquadratura, che di fatto costringe a ricostruire il dinamismo in un utilizzo tanto invadente quanto sapiente – compreso il summenzionato split screen – della messa in scena e della profondità di campo.
Alcune cosette, va da sé, non tornano, ma anche a sforzarmi non so come altrimenti si sarebbero potute fare (parlo tecnicamente di certe transizioni da un tempo all’altro e drammaturgicamente delle side story che Pelleschi ci dice esserci “perché devono esserci”). Il finale, con la mostra dell’agognato controcampo e la conseguente ossigenazione dello sguardo spettatoriale mi è parso opinabile. Il digital de-aging applicato a Hanks, che quindi ci appare così come ce lo ricordavamo in Big, fa un certo effetto inquietante, tutto ancora da metabolizzare e da comprendere. Insomma, ci sono sicuramente non direi delle ingenuità, quanto – ahinoi – delle manifestazioni di senilità, che però derubricherei a peccati veniali. E lo farei perché, appunto, Here mi sembra qualcosa di più o di diverso dal semplice esercizio di stile. Se fosse solo quello, allora certe sviste peserebbero sulla sua proposta radicale. Di contro, mi pare che essa non essendo solo fine, ma collocandosi anche, equilibratamente, a mo’ di mezzo, possa contemperare un margine di laissez faire.
Pelleschi probabilmente ha ragione, ma ciò non prova – in questo caso – che io abbia torto. Un’operazione Here è, ma direi un’operazione riuscita. E, anzi, mi spenderei in un attributo che uso di rado: un “piccolo” capolavoro.
