Drammatico, Recensione

HELP ME EROS

Titolo OriginaleBang bang wo ai shen
NazioneTaiwan
Anno Produzione2007
Durata103'

TRAMA

Ex giocatore di borsa ridotto sul lastrico a causa di investimenti sfortunati, Ah Jie sprofonda in una depressione che lo conduce all’inerzia e alla disperazione. Stordito da massicce dosi di marijuana che coltiva personalmente nel suo armadio, l’uomo si rivolge ad una linea telefonica di assistenza psicologica per avere un po’ di conforto. La sua interlocutrice fissa diventa Chyi che, pur gentile e comprensiva, si rifiuta di incontrarlo, limitando i rapporti al solo telefono o a brevi chat in msn. Nel frattempo Ah Jie conosce Shin, una giovane venditrice di noci di betel che si veste in modo provocante per attrarre i clienti. Nei desideri dell’uomo, il corpo della bella Shin diventa quello della sfuggente Chyi, ma la realtà è diversa. Pesantemente.

RECENSIONI

Come fogli(e) al vento

Plasticati dalle fluorescenze neon di Taipei, i personaggi di Help Me Eros disegnano un triangolo sghembo e impossibile, materiato di solitudine, insoddisfazione e voracità. Nel cuore dell’apatia e dell’anaffettività si aprono però insospettabili squarci di calore umano, toccanti acrobazie amorose che, pur incapaci di sconfiggere l’irreversibile reificazione dei corpi, disegnano strazianti ideogrammi sentimentali. È una versione degradata dell’eros quella che Lee Kang-sheng mette in scena nella sua opera seconda (il suo primo film, quel Bu jian che dialoga intimamente col Bu san di Tsai Ming-liang purtroppo non lo abbiamo visto), degradata rispetto all’ideale e degradata rispetto al maestro; Lee è più volgare, sgradevole, osceno di Tsai. E anche più sfacciatamente narcisista, dal momento Help Me Eros traduce cinematograficamente un frammento di vita dello stesso Lee: “È in realtà la prima sceneggiatura che abbia mai scritto, e tratta del periodo più nero della mia vita. […] Per di più avevo giocato tutti i soldi che avevo guadagnato recitando e avevo perso tutto. Il pensiero del suicidio mi è passato per la mente. Ho tentato di chiamare il numero verde molte volte, ma non sono mai riuscito a ottenere la linea”. Su questo spunto brutalmente autobiografico l’attore-cineasta costruisce una fantasticheria melanconica inevitabilmente debitrice a Tsai, ma, come già accennato, titolare di un’estetica e una poetica in via di emancipazione. Non solo un erotismo eccessivamente stilizzato che precipita/sublima in timbro kitsch (esemplare la sequenza che proietta le etichette luminose sui corpi degli attori, assimilandoli a delle borse), ma soprattutto una comicità fisicamente fredda, impassibile, keatoniana. Lee costruisce sì le inquadrature con scrupolo geometrico, ma, contrariamente a Tsai, subordina la composizione dell’immagine al proprio corpo di attore, che diventa così il perno di organizzazione drammatica del quadro. Lasciare ferma la macchina da presa allora non è più il segno di una vigile imperturbabilità, come in Tsai, ma la predisposizione di una cornice adeguata alla performance attoriale (emblematica in questo senso l’inquadratura fissa della prima telefonata al numero verde, con Lee che sfrutta la profondità di campo per ciondolare inquieto nello spazio dell’immagine). Una spazialità funzionale che si ostina a mantenere l’uomo al centro della visione, anche se la sua esistenza è irrimediabilmente volatile. Come fogli(e) al vento.

Calco d’oriente

Lo sguardo liquido, fisso ed enigmatico di Tsai Ming Liang ha fatto scuola. Sotto l'egida produttiva del maestro, il discepolo Lee Kang Sheng ne ricalca lo stile senza riuscire a replicarne le suggestioni. Ci troviamo così davanti all'ennesimo sottoprodotto da festival, caratterizzato da una dominante di lunghi piani-sequenza in cui nulla accade, per raccontare solitudine e inadeguatezza di un mesto manipolo di personaggi. Il tutto immerso in una luce glaciale, specchio dell'incapacità di reagire e interagire dei protagonisti cui non resta altro che riflettersi nella propria vacuità, che sia davanti alle porte di un ascensore o nelle vetrine di un negozio. Di luogo comune in luogo comune, pur se d'autore, non possono mancare insistite e dettagliate sequenze a sfondo sessuale. Il menù prevede ginniche acrobazie, tatuaggi luminosi su cupe ammucchiate e la perdita delle scettro di regina del menage con anguille per Valeria Marini (in principio fu Bambola). Non resta che ironizzare su uno stile che è ormai divenuto trita "maniera". La non riuscita dell'operazione, però, non deriva solo dallo stanco (e stancante) ripetersi di un cliché, ma anche dalla costruzione di personaggi davvero poco interessanti, chiusi in silenzi, mestizie, fumi e stravaganze che non riescono a dare voce a un disagio sincero.