TRAMA
Per volere del governatore, un detenuto di colore ha una settimana di tempo per convincere il figlio, promessa del basket, a scegliere una determinata squadra. Ma fra padre ed erede non corre buon sangue: il primo ha ucciso sua madre.
RECENSIONI
Spike Lee applica i (soliti) stilemi eccentrici del suo cinema a un’altra delle sue passioni, la pallacanestro, nel periodo frequentata anche da Ron Shelton in Chi non Salta Bianco è e William Friedkin in Basta Vincere (Lee produrrà anche Love & Basketball di Gina Prince-Bythewood). L’idea portante dell’opera è raffigurare il progressivo riavvicinamento padre/figlio attraverso gli incontri sportivi e relativi confronti ma racconta anche, non senza essere edificante-predicatoria (rischia di diventare di maniera e schematica nella sua parabola “biblica”), la corruzione dietro al gioco, l’opportunismo dei cortigiani, i copiosi diavoli per il novello Faust, il razzismo che permette ai neri di farsi strada solo nello sport e la loro idiozia nel permettere ai bianchi di lasciarli in schiavitù: tutto poggiato sui testi arrabbiati dei Public Enemy in colonna sonora (peccato che il resto delle note sia affidato a un Aaron Copland enfatico e artificioso). Il racconto potrebbe anche essere uno dei possibili seguiti dell’amore interraziale di Jungle Fever e appassiona tanto quanto l’eccentrico formalismo dell’autore fra montaggi paralleli, flashback, flash forward, sprazzi musical-surreali alla Aule Turbolente e servizi televisivi che si confondono con le riprese “dal vero”. Molti camei di illustri giocatori (l’attore esordiente Ray Allen gioca nella NBA).