TRAMA
Tre donne afgane di diversa estrazione sociale, residenti a Kabul, devono affrontare una grande sfida nelle loro vite. Hava, una donna legata alle tradizioni, incinta, della quale non importa niente a nessuno, vive con i suoceri. Maryam, una colta giornalista televisiva, sta per divorziare dal marito infedele, il quale scopre che è incinta. Ayesha, una ragazza di diciotto anni, accetta di sposare il cugino, poiché il ragazzo che l’ha messa incinta è scomparso. Per la prima volta, ciascuna di loro deve risolvere il proprio problema da sola.
RECENSIONI
Avvezza al documentario, la regista Sahraa Karimi nel 2019 compie il grande salto e realizza la sua prima opera di finzione, Hava, Maryam, Ayesha (presentata negli Orizzonti di Venezia 2019). Da Afghan Women Behind the Wheel (2009, portato sempre al Lido) sono passati dieci anni, ma il passo è brevissimo: il cuore della poetica di Karimi resta sempre l'indagine sui soprusi subiti dalla donna in una società pesantemente patriarcale, a causa di tradizioni intoccabili e inamovibili e di conflitti che hanno bloccato sul nascere il processo di democratizzazione. Non servono introduzioni né inquadramenti storici: bastano le tre protagoniste, ognuna delle quali a suo modo martire e prigioniera. Hava, Maryam e Ayesha non si conoscono, le loro storie non sono destinate a fondersi; eppure sono connesse da un unico drammatico filo, quello della predeterminazione da accettare senza proteste, della cronica mancanza di diritti come dato di fatto incontrovertibile. Sono rappresentanti di tre apparentemente diverse estrazioni sociali: Hava è il prototipo della casalinga afghana, Ayesha è una ragazza della classe media e Maryam è una donna colta, un'intellettuale emancipata. Sono tutte e tre incinte e, in buona sostanza, provano a reagire al disagio instaurando una forma di resistenza: se Hava parla col bimbo che ha in grembo, unico interlocutore in una giornata trafitta dalla più bieca sottomissione e dal più feroce disinteresse, Maryam cerca di divorziare dal marito infedele portandosi addosso lo spaventoso fantasma di una maternità da single (che corrisponde al rifiuto da parte di un uomo, e quindi all'ostracismo). Ayesha, invece, vive la quotidianità con la spensieratezza dell'adolescenza, dando l'impressione di essere la più pronta a ribaltare le convenzioni nonostante il ragazzo che l'ha messa incinta sia scomparso dopo aver saputo della sua gravidanza.
Dietro la cinepresa, Karimi – che dichiara di aver viaggiato molto in diverse città e villaggi afghani, raccogliendo storie vere dal profondo del Paese – sceglie la via dell'oggettività, sfiorando l'approccio – appunto – documentaristico (talmente tanto che ci si potrebbe domandare perché passare alla fiction, che in un certo senso depotenzia la forza del messaggio). Come se per raccontare le vite di donne che per anni non hanno avuto alcuna voce non ci fosse bisogno di nessun retorico abbellimento, di nessuna appendice romanzata. È tutto lì, davanti ai nostri occhi, a volte sporco ed esteticamente sghembo perché l'urgenza storica necessita di un “cosa” che può fare volentieri a meno del “come”. E risulta anche piuttosto interessante constatare come la vocazione iperrealista di Hava, Maryam, Ayesha porti con sé anche una certa impersonalità e una ben calibrata assenza di drammaturgia: il film di denuncia per la regista è questo, è il grido disperato di chi ha perso la speranza e racconta gli eventi come se li guardasse da fuori, come dati di fatto che non possono e non devono essere riletti e rielaborati. In questa invidiabile asciuttezza autoriale, il medium cinematografico non viene visto come molla propulsiva della rivincita, non rappresenta l'approdo ultimo e decisivo di un percorso (un po' come accade al palestinese Libere disobbedienti innamorate, per certi versi assimilabile al lavoro di Karimi) che idealizza un po' la liberazione delle protagoniste. In Hava, Maryam, Ayesha trionfa la staticità, non c'è azione, e il cinema serve per dichiarare l'esistenza di una questione morale e umana che deve ferire la coscienza di chi guarda. Non c'è catarsi, non c'è riscatto; e soprattutto non c'è una fine, una chiosa, perché non può esserci: la storia, la storia dello smantellamento di una millenaria società tradizionale improntata al maschilismo, non è che alle sue prime battute.
