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- Louis Nero
TRAMA
Itinerario nella mente disturbata di un giovane che crede di dover ingurgitare tutti i rifiuti del pianeta._x000D_
RECENSIONI
L’ultimo lavoro di Louis Nero è inserito in un progetto trilogico sul linguaggio cinematografico. Si configura, se si vuole, come tappa conclusiva di un percorso dichiaratamente autoreferenziale sul cinema iniziato illo tempore con Golem. In Hans risulta praticamente impossibile non tenere in considerazione un processo di affinamento stilistico (una maturazione si direbbe) che conduce l’autore verso approdi teorici tali da prendere, forse inconsapevolmente, le distanze dalle opere precedenti, una sorta di procedimento alchemico (orizzonte cultu[r]ale nel quale al nostro piace inscriversi) segnata dai passaggi dell’Opera al Nero, tanto per giocherellare linguisticamente. Pianosequenza era una faticosa e frastagliata messa in opera del tempo effettuata attraverso la figura linguistica per l’appunto del piano-sequenza strutturata su un efficace parallelismo istituito tra fluidità dell’immagine e flusso fonico (la phoné come voce ma anche come suono, come apertura alla significazione sonora e come dispiegamento “semplicemente” significante) nella quale emergevano l’adiacenza tra registro espressivo e contenuto tematico (questa allucinata e prolungata meditazione filosofico-esoterica di anime rubate alla tradizione orfico-pitagorica neoplatonicamente in eterno transito, le incidenze preponderantemente simboliche di certa teosofia alchemica, in una specie di viaggio al termine di una notturnità invero in[de]terminabile), la ricerca di un’affannosa costruzione “libera indiretta” a partire da un’istanza desoggettivizzante come occhio-cinema vertoviano, come erlebnis filmica apparentemente impersonale (poiché chi guarda dietro la macchina da presa è sempre un qualcuno), tentando di (de)costruire un senso diegetico partendo programmaticamente dall’assunto teorico-linguistico deputato (il p/s) con tutto il suo corredo di restrizioni sintattiche implicite (l’impossibilità di esprimersi attraverso altri modi del linguaggio cinematografico quali ad es. la profondità di campo, inseguendo l’istanza sintagmatica per altre vie come il montaggio interno). L’enorme limite contro il quale andava a sbattere fragorosamente un’operazione di questo genere era il soffocante peso del metalinguismo e del suo programmatico didascalismo che ha finito col trasformare l’opera in un inane esercizio di stile, o peggio in un saggio di grammatologia cinematografica, piuttosto che un film (al di là di una tormentata, concettosissima ostentazione di una vocazione autoriale all’erudizione).
Fortunatamente Nero con Hans ci sembra aver scongiurato, anche se non integralmente, il rischio di una tale sindrome da soffocamento (e conseguente asfissia) offrendoci una pellicola epurata da scorie teoriche di ingiustificata pesantezza, senza tuttavia rinunciare ad esiti estetici di sicuro rilievo.
Il film, nella forma privilegiata e metaforica del viaggio (ancora una volta), tratta di un iter catabatico nelle oscure zone dell’inconscio, uno sprofondamento abissale negli impervi meandri della psiche, laddove avvengono tutti i processi cognitivi fondati sul rapporto psico-fenomenologico tra io e mondo. Hans è la messa in scena dell’accadere psichico nel teatro di una mente disturbata, oggettivata dalla solita istanza vertoviana di un kinoglaz e(s)terno, suo inevitabile doppelgänger (motivo irrinunciabile del percorso teorico di Nero a cominciare da Golem), intento chiaro e chiarificato dal motivo dello sdoppiamento schizoide presente nel film e sottolineato in più di una sequenza (la schisi o scissione o duplicazione viene evidenziata in diverse inquadrature, e amplificata da frequenti divaricazioni di piano, assumendo anche valore di accesso negato alla comunicazione e all’interazione tra le dramatis personae), e dalla rinuncia alle facili e indulgenti tentazioni della soggettiva. L’evento mentale scompaginato altresì su vari strati temporali (lo zeitloss freudiano, personaggio citato apertis verbis [1], in compagnia di altri scomodati nomi illustri quali Jung e Hillman), un terrificante horror vacui interpolato trai lancinanti dolori del parto e la lacerante imponderabilità della morte, viene dispiegato attraverso una costruzione volutamente occlusiva, incubale, dello spazio (la mise en abîme glacialmente geometrica di scatola cranica, manicomio, prigione [dell’anima]), fotografato nella sporca lividezza delle brume di un blu come notte della ragione. Stupefacente il lavoro, di nuovo, sulla distorsione sonora che connota efficacemente un universo in preda al delirio della significazione e che ci ricollega a pellicole relativamente recenti come Spider, Clean Shaven, Schramm e meno prossime quali, su tutte, Eraserhead (gioverebbe, nei termini autonomici di cui il regista è capace, minor preponderanza di ascendenze lynchane, o di certo lynchanesimo, seppure in un disegno d’insieme esse appaiano come macchie di senso non così fuori registro come si potrebbe supporre), coadiuvato da quelle che Nero definisce “inquadrature emozionali” e che ricordano le deleuziane “inquadrature affettive” di Dreyer piuttosto che le più articolate e complesse “inquadrature patetiche” di Ejzenstejn. L’imponente presenza scenica di Franco Nero (nessun legame di parentela trai due, stando alla certificazione anagrafica di Francesco Sparanero) è sublime quanto inutile (soprattutto se commisurato all’ottimo lavoro attoriale di Savoca) mentre l’ingombrante presenza di Silvano Agosti (N.P. Il segreto, tra le altre cose) rappresenta e garantisce in una qualche maniera una linea di continuità tematica, pur nell’impostazione di sbalestrante diseguaglianza nella trattazione di follia e fobie, che si espone grossolanamente al rischio di argomentazioni (fanta)sociologiche e derive filosofiche altre che potrebbero aprire vie di fuga del tutto incongrue al contesto espressamente occlusivo dell’opera (nonostante l’affascinante discorrere, soprattutto visivo, sul delirio paranoide della società dei consumi nella quale l’essere umano, schiacciato dalle numerose inquadrature dall’alto, diviene kafkianamente lo scarafaggio costretto a nutrirsi dell’escremento-merce che egli stesso produce).
[1] Il titolo stesso sembrerebbe riagganciarsi al freudiano caso clinico Il piccolo Hans, anche se Nero preferisce, parlando di Freud, fare riferimento agli studi sull’isteria infantile e agli studi sull’isteria in generale condotti insieme a Breuer.
