Recensione, Thriller

HANNIBAL LECTER

Titolo OriginaleHannibal Rising
NazioneIsraele/Francia/ Gran Bretagna/Repubblica Ceca
Anno Produzione2006
Genere
Durata120'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Lituania, 1944: il piccolo Hannibal Lecter assiste prima alla morte dei genitori poi a quella della sorellina Mischa, mangiata da un gruppo di famelici criminali. Non si riprenderà più.

RECENSIONI

Scritto su ordinazione dall’ormai Pony-Romanziere e neosceneggiatore Thomas Harris, Hannibal Rising è il degno epilogo di una parabola cinematografica precipitevole: dalle vette di Mann e Demme siamo passati al trash patinato di Scott, poi all’ordinario nulla di Ratner per ritrovarci a questa miserrima schifezzuola, primo capitolo totalmente indifendibile della serie dedicata più o meno direttamente al noto antropofago. Il peccato originale del film è porre Lecter di nuovo al centro della narrazione, assoluto e totalizzante protagonista, quando già Hannibal aveva dimostrato quale danno di immagine veniva arrecato al Nostro una volta strappato al suo “naturale” ruolo di presenza defilata, ellittica ed enigmatica. Non contento di questo ur-svarione, però, Harris vede bene di peggiorare le cose andando addirittura alle origini del male, come recita la didascalica didascalia italiana: Hannibal Rising svolge (male) l’unica, deleteria funzione di appiccicare un background posticcio quanto scontato a un personaggio che trova(va) la sua ragion d’essere in una misteriosa, obliqua e quasi “sovrumana” malvagità. Il povero Dr Lecter a venire viene invece ridotto alla stregua di povero disadattato, funestato da un trauma pregresso di immediata lettura che prima lo trasformerà in Mr. Vendetta per poi dissennarlo completamente. La sceneggiatura di Harris, oltre a essere sbagliata a livello concettuale, si rivela pessima in tutte le sue componenti: strutturato come un banale e meccanico revenge movie, il film presenta personaggi inerti (il protagonista), monodimensionali (i cattivi) o “incomprensibili” in senso deteriore (la zia), snocciola dialoghi imbarazzanti (con frasi a effetto tipo – ‘la memoria è come un coltello, può ferire’ -) e confeziona situazioni/soluzioni di sciattissima ridicolaggine (il trucco della “mano cadavere”, il coltello blocca-pallottola e così via). Webber fa invece di tutto per non connotare la sua presenza, se si eccettua qualche flashback cromaticamente tarato e un omicidio efficacemente ritratto (quello del macellaio). Attori adeguati al contesto, con il giovane Ulliel candidato al premio Madame Tussauds e la povera Gong Li nella parte della zietta giapponese di Hannibal (per certo cinema, cfr Memorie di una Geisha , cinese o giapponese fa lo stesso) dalla psicologia indefinibile e dall’agire immotivato.

Sottoscritto totalmente quanto sostenuto da Pelleschi (una serie di annotazioni ve le risparmio, le trovo tutte nel pezzo dell’amico spietato), non mi rimane che celebrare, per mera intuizione, il requiem di uno scrittore che sembrava fatto di tutt’altra pasta. Lo faccio, ribadisco, sulla base di una sensazione (il romanzo da cui questo film è tratto – o è il romanzo che è tratto dal film? Chi è l’uovo, chi la gallina? C’è interscambiabilità di ruoli? Come lavora e ragiona Harris a questo punto? - non l’ho letto, non lo leggo, non lo leggerò) ma forte del fatto che stavolta il romanziere firma anche la sceneggiatura. Hannibal Lecter è un film di rara insipienza, con un incipit-prologo stranamente lungo (se c’è una particolarità è questa) e, sulla base di ciò che si vede in seguito, pieno di premesse deluse (viene riletto e rievocato di continuo come se contenesse elementi da rivelarsi di poi, cosa che non è: che la bimba fosse stata divorata è chiaro da subito, che Hannibal avesse partecipato al banchetto è conseguenza logica e insopprimibile che trae chiunque decida di porre mente alla roba che sta guardando). Spiace che una delle figure più affascinanti che la letteratura thriller ci abbia mai regalato, quella dello psichiatra cannibale, venga a sua volta cannibalizzata dal suo autore senza alcuna remora e il problema non sta soltanto nella volontà di spiegare ad ogni costo le origini di un’ossessione omicida aberrante ma, soprattutto, nel donare un alone avventuroso al passato del personaggio, espediente narrativo che paradossalmente svuota la figura di qualsivoglia interesse, rendendola artefatta, costruita alla stregua di mille altre che la letteratura di genere partorisce a ogni piè sospinto; erano la convenzionalità, la (oserei) banalità del vissuto che si intuivano dietro la cultura e la raffinatezza di Hannibal il suo punto di forza, l’origine del suo fascino: intaccarle con un passato burrascoso e (lo dico) banalmente romanzesco significa darsi la proverbiale zappa (d’oro zecchino, certo) sui piedi. Ma, al di là dello sfruttamento del filone Lecter (del fallimentare spostamento del cannibale a baricentro del film/libro si è già detto a proposito di Hannibal), spiace che il risultato sia così straordinariamente impersonale e ottuso compiendo questo prequel il peccato più grave, quello di legittimarne l’antieroe nella sua perversione, il male di Hannibal nascendo da un sopruso subito; la sua fame di vendetta (che si esplica attraverso la più tediosa collana seriale di delitti che lo schermo abbia mai ospitato) si giustifica (tutti cattivoni quelli trucidati) e dirime quel conflitto etico che si agitava nel lettore/spettatore - quel sano turbamento che scaturiva dal conflitto tra l’indiscutibile carisma del personaggio e la sua crudeltà gratuita -, qui completamente, aproblematicamente dalla sua parte. Senza contare che (ma questo lo avevamo notato anche in Hannibal) una delle caratteristiche maggiori dello scrittore, le incontenibili escalation di tensione e interesse, è completamente azzerata: ogni singolo momento di questo film, che appare tanto più trash quanto più risulta anonimo e composto nella forma, suona enfatico al punto che nell’opera non lo è niente.